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Il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping

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Situazione critica in Medio Oriente, la Cina ne approfitta. Il Dragone è il principale partner commerciale e i 22 Stati della Lega Araba hanno accordi di cooperazione con Pechino


Definire il Medio Oriente in fiamme è quasi un eufemismo. Non bastavano il confronto tra Israeliani e Palestinesi o quello degli Houthi contro il mondo occidentale attraverso (minacce di) attacchi alle navi in transito. A tutto ciò si è aggiunto il continuo confronto con gli Hezbollah libanesi. E ora, alla lunga lista delle enormi tensioni dobbiamo annettere anche il confronto, sempre più acceso, tra Iran e Israele, come diretta conseguenza dell’attacco ordito (con successo) da Gerusalemme nei confronti del leader di Hamas in quel di Teheran. Un vero e proprio affronto nella patria dei pasdaran: a dimostrare che gli israeliani possono arrivare a chiunque e di conseguenza nessuno può sentirsi sicuro. Viviamo ore di trepidante attesa, circa la decisione degli sciiti iraniani di reagire con un attacco rivolto direttamente in quel di Israele.

Non solo: il New York Times ha già azzardato l’ipotesi di sistemi di difesa aerea e radar arrivati da Mosca a Teheran. Una situazione che anche solo poche settimane fa non avremmo nemmeno lontanamente immaginato. Parlo del rischio di innesco di un conflitto globale. Che è, invece, diventata la durissima realtà con cui confrontarsi. Un quadro di enorme complessità, figlio di quanto verificatosi negli ultimi decenni, che ha aumentato vertiginosamente il livello di tensione in Medio Oriente e nell’area del Magreb.

IL MEDIO ORIENTE È IN FIAMME E LA CINA SI STAGLIA ALL’ORIZZONTE

Tre sono, in particolare, le principali determinanti che hanno contribuito all’enorme livello di tensione attuale e che, in un certo qual modo, stanno alla base dello sciagurato attacco palestinese del 7 ottobre 2023. La prima è l’invasione dell’Iraq ad opera degli americani (2003):. Anziché creare la democrazia, come era nelle intenzioni di Bush, ha fatto di Bagdad la capitale uno stato quasi fallito, afflitto da enormi tensioni interne e governato da una forza settaria come Daesh. Comunque sia il risultato netto è stato quello di contribuire al rafforzamento dell’Iran nella regione.
Il secondo fattore alla base delle tensioni odierne è rappresentato dalle primavere arabe, che hanno provocato sconvolgimenti interni a non pochi Paesi, mettendo sulla difensiva i relativi regimi autoritari che hanno fatto ricorso a richiami ideologici (interpretazioni religiose) e identitari (ricorrendo a trascorsi tribali, religiosi o etnici), pur di perpetuare la loro leadership.
Il terzo e ultimo fattore è la cosiddetta strategia “Pivot to Asia”, promossa da Obama secondo cui le risorse di Washington dovevano essere focalizzate alla gestione degli affari (economici e di sicurezza) asiatici al fine di gestire la sempre più incombente minaccia esercitata dalla Cina. Se questo è il quadro, è quasi impossibile chiedere agli Stati Uniti di farsi carico di riportare la pace nell’area: sarebbe come aspettare Godot.

WASHINGTON NON PUÒ SVOLGERE UN RUOLO DI LEADERSHIP

La situazione è talmente compromessa da impedire a Washington di giocare una qualsiasi forma di leadership (riconosciuta). Del resto, in questi mesi, il Segretario di Stato Blinken si è recato numerose volte in visita in Israele e negli stati arabi di riferimento portando a casa un sostanziale nulla di fatto. Dobbiamo dunque rivolgerci alla Cina? Si tratta di una domanda quasi scontata visto che le nazioni arabe vantano con l’Impero del Dragone una relazione economica del tutto privilegiata, essendo quest’ultima diventata il principale partner commerciale. Basti pensare che l’interscambio ha raggiunto nel 2023 i 400 miliardi di dollari, quando nel 2004 raggiungeva a malapena i 35 miliardi. Anche dal punto di vista politico il legame è sempre più solido. Tutti e 22 gli Stati membri della Lega Araba hanno siglato accordi di cooperazione con Pechino nell’ambito della Belt and Road Initiative (la cosiddetta Nuova Via della Seta).

IL MEDIO ORIENTE E LA RILUTTANZA DELLA CINA A SCHIERARSI APERTAMENTE A LIVELLO INTERNAZIONALE

È tuttavia nota la riluttanza cinese a schierarsi apertamente a livello internazionale, preferendo una posizione di oscura ambiguità, così da mantenere aperte tutte le opzioni. Se non possiamo quindi evocare realisticamente azioni di leadership unilaterale, l’unica opzione che tiene è quella che le due attuali superpotenze (Washington e Pechino) dialoghino direttamente per trovare il bandolo della matassa. Non tanto in nome di un esercizio di leadership internazionale, che nessuna delle due potenze può o vuole esercitare, quanto piuttosto per importanti ragioni interne (conseguenti alla loro debolezza).

Per i Democratici e Biden è indispensabile a fini elettorali non intestarsi un ulteriore incremento delle tensioni internazionali, che servirebbe su un piatto d’argento la vittoria a Trump. Per i Comunisti di Pechino urge stabilità con il mondo occidentale. Troppo debole è la domanda interna e troppo importanti sono i mercati esteri per la crescita economica del Dragone per giustificare un atteggiamento passivo nei confronti dell’Iran (con tutti i suoi alleati). Potrebbe non essere fantascienza ma pragmatismo indotto da rispettive debolezze. Lo dobbiamo sperare anche se non sarà facile. Ah dimenticavo: Europa, non pervenuta!


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