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Difesa comune europea: sarà la volta buona?

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Per una difesa comune europea servono un condiviso senso del pericolo una ferrea volontà politica di reagire, sostenuta anche dal necessario e conseguente impegno a difendersi

MENTRE ieri si celebrava in Normandia l’80° anniversario del D-Day, il giorno dell’epico sbarco delle truppe alleate con il quale prende il via la liberazione dell’Europa dall’oppressione nazifascista, in Olanda è cominciata la tornata delle elezioni europee che si concluderà per tutti i paesi domenica 9 giugno. Tutto ciò in un contesto segnato per l’Europa dalla minaccia militare di Vladimir Putin che mira a cancellare il desiderio di libertà dei paesi dell’Europa orientale (rappresentato dalla richiesta di ingresso nell’Ue e nella Nato) e che ha trasformato l’invasione dell’Ucraina in una guerra santa contro la degenerazione dell’Occidente, colpevole di credere nei diritti e nelle libertà dei suoi cittadini. In più, entro la fine dell’anno sapremo se prenderà forma la minaccia geopolitica prospettata dall’eventuale ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca con il conseguente probabile ritiro degli Usa dal sostegno all’Ucraina e, più in generale, dal sostegno alla Nato.

In questo scenario, davvero non si capisce che cosa aspetti l’Unione europea ad agire finalmente unita, a condividere i sistemi di sicurezza dei singoli stati membri e a concepire un progetto industriale comune per la difesa dei suoi confini. Per farlo, servono un condiviso senso del pericolo e una ferrea volontà politica di reagire, sostenuta anche dal necessario e conseguente impegno a difendersi. Senza questi elementi oggi non festeggeremmo il 6 giugno del 1944, giorno del D-Day, né il 26 agosto dello stesso anno, quando, dopo due mesi e mezzo di battaglie attraverso la Francia, le forze anglo-americane entrarono a Parigi, né il 25 aprile del 1944, la data della Liberazione dell’Italia dal dominio nazifascista. Fino ad oggi i paesi europei hanno potuto godere della protezione militare garantita dagli Stati Uniti dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Lo scudo americano ha permesso ai paesi dell’Europa occidentale di vivere nella pace, di costruire dei solidi sistemi di welfare invidiati in tutto il mondo, di creare un enorme spazio libero di mercato e di godere di una relativa ma ampia prosperità. Oggi tutto questo è messo in discussione per diverse ragioni.

L’allargamento dell’Unione europea a est ha aumentato il numero di paesi che ambiscono al medesimo tenore di vita. La globalizzazione premia sempre di più i colossi globali capaci di giocare la propria partita con una totale unità di intenti, mentre l’Europa continua a muoversi in ordine sparso. La Russia ha maturato una ideologia paranoica e revanscista di riconquista dei territori che un tempo appartenevano all’Unione Sovietica. L’America è sempre più risucchiata nelle questioni di politica interna e non ha più la voglia di svolgere il ruolo di scudo militare dei paesi europei. Quest’ultimo punto è parecchio rilevante, oggi, di fronte alla dura aggressione della Russia all’Ucraina e al modello di democrazia e di sviluppo dell’Ue. Dopo il fiasco in Iraq, la retorica del “ritiro” americano dal ruolo di gendarme del mondo comincia con Barack Obama, il primo presidente a chiedere con chiarezza un maggiore impegno dei paesi europei alle spese comuni per la difesa nell’ambito della Nato. Successivamente, Donald Trump ha reso più grave la postura degli Usa, mostrando disprezzo nei confronti dell’Alleanza e promettendo agli alleati europei ‘morosi’ che, in caso di attacco, Washington non li avrebbe difesi.

Se Trump dovesse vincere le elezioni americane, l’Unione europea si ritroverebbe molto probabilmente priva di un sostegno indispensabile con conseguenze nefaste per la sua difesa comune. Tuttavia, bisogna riconoscere che lo stesso Joe Biden, che pure ha fatto onestamente la sua parte a sostegno dell’Ucraina, pressato dall’orientamento dell’elettorato americano, non potrebbe comunque più spingersi fino al punto di supplire alle inadempienze dell’Europa. La ritrosia a usare le armi americane per attaccare le basi militari in Russia è stata un po’ la spia di questa prudenza che non è soltanto il timore di una escalation nell’area, ma anche un messaggio che la Casa Bianca ha mandato ai cittadini statunitensi. In questo scenario, l’Europa ha mostrato unità di intenti e serietà di reazione contro la Russia soprattutto nel periodo in cui Mario Draghi è stato a capo del governo italiano. Ciò è accaduto non soltanto per le capacità di negoziazione e di sintesi dell’ex presidente del consiglio, ma anche perché i paesi europei erano ancora lontani dal momento elettorale che li ha visti impegnati in questi mesi e che li costringe a confrontarsi con la paura delle opinioni pubbliche che, nella gran parte dei casi, non vogliono sentir parlare di guerra.

L’atteggiamento recente dei governi europei ha però peggiorato la situazione nel teatro del conflitto: l’Ucraina ha perso posizioni a vantaggio dell’avanzata russa. Soprattutto, i paesi europei continuano a muoversi senza una bussola. Gli stati baltici e scandinavi – che sono quelli che temono maggiormente Putin – sembrano i più pronti a combattere. In particolare, la Polonia, ben conscia della minaccia russa per averla provata direttamente sulla sua pelle, punta a spendere il 5% del Pil in armamenti per difendersi dalle ulteriori mire espansionistiche del Cremlino in caso di cedimento dell’Ucraina. Ungheria e Slovacchia, viceversa, guidate da governi sovranisti e antifederalisti, esprimono una postura pacifista sotto la quale si nasconde una vicinanza di fatto al governo di Mosca.

Il tradizionale motore franco-tedesco va sistematicamente in panne quando si parla di difesa comune europea, con Emmanuel Macron e Olaf Scholz che non mancano di criticarsi a vicenda: solo di recente, alla fine di maggio, i due sono riusciti a trovare un accordo sul cambio di passo richiesto da Kiev circa l’uso delle armi europee per attaccare basi militari in Russia. Le dichiarazioni di Macron sull’ipotesi di inviare soldati francesi servivano a comunicare alla Russia che una totale capitolazione ucraina non è contemplabile da parte dell’Europa e tutto sarà fatto per evitarla, ma sappiamo qual è stata l’accoglienza di governi e partiti europei – specie quelli italiani – preoccupati di spaventare l’elettorato che si avvicina al voto di questo fine settimana.

Negli ultimi giorni anche il governo Meloni ha espresso, a proposito dell’uso delle armi per colpire la Russia, un surplus di prudenza (si pensi alle stravaganti dichiarazioni di Antonio Tajani sul presunto divieto di uso delle armi offensive nella Costituzione) o un esplicito e populistico rifiuto (con la solita minaccia di Salvini di non votare più per l’invio di aiuti militari all’Ucraina). Restano aperte alcune domande. Quanto sono disposti a spendersi i leader europei per difendere diritti e libertà – tanto promossi in casa propria – contro l’assalto della Russia che in quei valori vede una minaccia all’idea spirituale del mondo russo? Se Putin dovesse conquistare l’Ucraina e poi aggredire i paesi baltici quanti governi e quanti cittadini europei sarebbero disposti a difendere questi paesi? Oggi i paesi europei che fanno parte della Nato sono riluttanti a raggiungere la fatidica soglia del 2% del Pil per la spesa militare comune, ma che cosa succederà quando, tra non molto, sarà necessario spendere molto più di questa cifra per difendersi dall’attacco di Mosca? A quanta protezione sociale in termini di welfare e regolamentazione economica sono disposti a rinunciare gli elettori europei, preoccupati di diminuire il loro tenore di vita? Quanta voce avranno i partiti populisti che, facendo il gioco di Putin, chiedono il disimpegno dall’Ucraina e la difesa delle singole patrie nazionali nell’illusione che ciò basti a salvarli dalla guerra e a garantire il benessere nazionale? Quando saranno finite le elezioni, i paesi europei dovranno cominciare a rispondere seriamente a tutte queste domande.


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