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Giorgia Meloni e Pedro Sanchez

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Meloni e Sanchez potrebbero cogliere l’occasione per rilanciare l’imprescindibile direttrice di sviluppo mediterranea dell’Unione europea

TANTO rumore per nulla? Non scomodiamo Shakespare, ma non vi è dubbio che per una volta i sondaggisti hanno fatto il loro lavoro in maniera professionale. Regge a livello europeo la cosiddetta “maggioranza Ursula”, avanzano (ma lentamente) le cosiddette destre radicali ed euro-scettiche (ma lo fanno in maniera confusa e farraginosa), perdono liberali ed ecologisti (vedi in particolare il contesto francese). Ma se il dato numerico necessita ancora di qualche ora per essere definitivo e stabilizzato a livello dei 720 seggi del Parlamento di Strasburgo, quello politico si concretizza in alcuni verdetti piuttosto chiari. I “brindisi” sono in corso a Roma, sponda Meloni, e a Bruxelles, sponda von der Leyen. In alto i calici, anche se in maniera meno accentuata, anche a Varsavia, sponda capo del governo Tusk, e a Madrid, per quanto riguarda il Primo ministro Sanchez.

Per quanto riguarda Meloni il suo successo è nei numeri (24 eletti, cioè una pattuglia più che doppia di parlamentari rispetto al 2019, vedendo più che dimezzati quelli del “falso amico” Salvini) e nel significato politico: pur essendo al governo da quasi due anni, è praticamente l’unico leader che non sembra pagare il conto all’usura del potere. Del suo probabile ingresso trionfale alle prossime decisive riunioni del Consiglio europeo si dirà a breve.

Un destino comune è quello di Tusk, anche se il suo ritorno alla guida dell’esecutivo in Polonia è più recente. Ad ogni modo è riuscito a depotenziare il tentativo di rivincita del Pis e forte anche dell’ottimo risultato generale dei popolari, si presenterà come leader in pectore del PPE nei prossimi decisivi mesi. Sanchez infine ottiene un secondo posto, dietro appunto ai popolari spagnoli, che considerate le premesse suona come un successo pieno. Per lui confermare il risultato del 2019 non era per nulla scontato.

Un discorso a parte merita il “brindisi” di von der Leyen. Premesso che la sua riconferma alla guida della Commissione non è scontata, si può dire che un percorso che negli ultimi due mesi pareva essersi trasformato in una via crucis, alla chiusura delle urne si è tramutata in una ipotesi molto concreta. Prima di tutto perché il PPE si conferma primo partito e von der Leyen, seppur dopo una designazione controversa e contrastata, rimane comunque la Spitzenkandidat degli stessi popolari. In secondo luogo, l’asse popolari/socialisti, che potrebbe condurre ad una spartizione dei “top jobs” europei, è uscito confermato dalle urne. Nessuna altra coppia si avvicina minimamente agli oltre 320 seggi di PPE+S&D e la “stampella” per arrivare ai 361 (minimo necessario) non dovrebbe essere così difficile da trovare, o tra i liberali di Renew o tra alcuni “volenterosi gruppi nazionali”, vedi ad esempio quello dei meloniani. Proprio il riferimento ai liberali porta il discorso sulla debacle di Macron, colui che sin dal 2019 si è opposto alla logica dei “candidati di partito”, vero e proprio inventore dell’allora candidatura von der Leyen (che nel 2019 non era Spitzenkandidat), ma negli ultimi mesi trasformatosi nel suo più acerrimo oppositore. Con lui depotenziato dalla debacle interna (con successivo scioglimento dell’Assemblea nazionale), con uno Scholz altresì “azzoppato” dalla pessima performance delle differenti componenti della sua coalizione semaforo (socialdemocratici, liberali e verdi) e con la “strana coppia” Meloni-Sanchez come sponsor, von der Leyen potrebbe davvero chiudere i conti e portare a casa una per nulla scontata riconferma.

Se si decide di rimanere all’interno della metafora del “brindisi”, qualcosa si può affermare anche a proposito a chi guardava questo voto dall’esterno, uno fra tutti Vladimir Putin. La risposta su questo punto è meno univoca. I calici al Cremlino si sono certamente alzati considerata l’impasse dell’asse franco-tedesco, con la coppia Macron-Scholz notevolmente indebolita a urne chiuse. Allo stesso tempo però alcuni “cavalli di razza” del putinismo continentale, non hanno certo brillato. È il caso di Salvini in Italia, ma anche di Orban in Ungheria che si è confermato al primo posto, ma con una agguerrita opposizione interna. E se, come correttamente, si può far notare, il trionfo del Rassemblement National in Francia non deve essere trascurato, occorre a tal proposito ricordare che Marine Le Pen ha già dovuto “diluire” non poco il suo discorso filo-russo e le prossime potenziali responsabilità di governo, pensando anche alla sua futura quarta candidatura all’Eliseo, spingeranno la destra radicale francese verso un percorso di realismo politico più simile a quello di Giorgia Meloni, che a quello di estremismi quali AfD. Dunque, brindisi sì, per Putin, ma con un retrogusto amaro e uno sguardo attento ora verso la Casa Bianca, consapevole che lo sfondamento dell’estrema destra anti-europea, anti-occidentale e anti-Nato non è al momento stato realizzato.

L’Europa del radicalismo (soprattutto di destra) cresce sicuramente in quantità, ma anche in divisioni. Basti pensare alle difficoltà di collocamento nei gruppi parlamentari di Fidesz (che si trascina senza meta dall’espulsione dai popolari) e ora anche di Afd, espulsa di recente da Identità e Democrazia proprio su proposta di una Le Pen alla ricerca della massima normalizzazione. A proposito di calici amari, amarissimo appare quello degli ecologisti. Non è servito a nulla, anzi verrebbe da dire è stato controproducente, l’attivismo, la discussione e il finanziamento generoso dei progetti legati alla sostenibilità ambientale contenuti in Next Generation Eu. Tutto ciò non ha catalizzato voti e addirittura ha finito per sviluppare reazioni avverse. Un chiaro dibattito sulla sostenibilità sociale, e dunque anche elettorale, di tali fondamentali dossiers dovrà essere al centro dell’impegno del nuovo Parlamento europeo. Finiti i brindisi si apriranno i vertici informali e formali dei capi di Stato e di governo per decidere innanzitutto il prossimo o la prossima presidente della Commissione, che dovrà poi passare di fronte al voto del nuovo Parlamento europeo. Meloni, Sanchez e Tusk potranno rivendicare le loro rispettive performance.

Non appare azzardato aggiungere che il governo italiano e quello spagnolo potrebbero cogliere l’occasione per rilanciare l’imprescindibile direttrice di sviluppo mediterranea dell’Unione, con il nostro Paese che dovrebbe spendersi tramite il suo presidente del Consiglio per elevare a livello europeo il suo interessante, ma troppo asfittico, piano Mattei. La direttrice mediterranea dovrebbe essere il punto di riferimento anche all’interno del gruppo socialista al Parlamento europeo, dal momento che i Paesi dell’area mediterranea, con il Pd italiano e i socialisti spagnoli in testa, possono contare su numeri importanti (circa 60 seggi sui 138 totali). Sanchez, a parte, ancora Giorgia Meloni ha la grande responsabilità di confermare, supportata in questo dal collega Tusk, il sostegno europeo pro-ucraino, in particolare nel momento in cui così appannato appare il contributo franco-tedesco. In definitiva il voto europeo lancia un segnale importante. Alcuni potranno definirlo inquietante, altri stimolante. Ma ad urne chiuse le scelte politiche dipendono dai risultati reali e non dalle speculazioni teoriche.

Ad antiche certezze, prime fra tutte la garanzia del motore franco-tedesco, paiono sostituirsi nuovi protagonismi. Meloni, Sanchez, Tusk: tra Madrid, Roma e Varsavia (e naturalmente Bruxelles) si attendono scelte oculate e all’altezza della gravità della congiuntura in atto. Riposti i calici e chiusi i brindisi, la storia di questi tragici anni pretende visione e senso di responsabilità. C’è da sperare che i nuovi protagonisti ne siano consapevoli e all’altezza.


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Alessandro Chiappetta

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