Un politico durante un comizio
6 minuti per la letturaNon siamo capaci di valorizzare ciò che facciamo di buono né in casa né fuori. Non abbiamo orgoglio delle nostre cose e questo è abbastanza grave se ci confrontiamo con gli altri grandi Paesi europei. Servono ragionamenti pragmatici e azione pragmatica all’altezza della complessità dei problemi e della complessità del quadro geopolitico e finanziario internazionali. Perché il riformismo che cambia strutturalmente i Paesi e li indirizza in un percorso di crescita condivisa è quello dove l’alternanza di governo preserva un continuum che è l’esatto contrario di ricominciare sempre tutto daccapo e dove anche l’alternanza eventuale di donne e uomini in postazioni di comando non impedisce mai di preservare il pezzo di strada buona già fatto e spinge a concentrare gli sforzi per accelerare nel cammino intrapreso. Se ciò non avviene si perde l’ancoraggio con la realtà e ci si allontana inesorabilmente dai sistemi nazionali più avanzati dove la qualità del dibattito della pubblica opinione è la premessa di tutto.
VORREMMO insistere sulla qualità del dibattito pubblico italiano. Perché è vero che in campagna elettorale, soprattutto alle battute finali, tutto è consentito, ma il prezzo che il Paese rischia di pagare sull’altare di un’informazione priva di memoria storica e di capacità di controllo fattuale sulle mille propagande è davvero molto alto. Se tutto si risolve nel solito pollaio televisivo dove ogni affermazione è vera purché serva ad alzare i decibel della polemica con chi sostiene l’esatto contrario senza che mai a nessuno venga in mente almeno di provare a dire chi ha ragione, è evidente che si perde l’ancoraggio con la realtà e ci si allontana inesorabilmente dai sistemi nazionali più avanzati dove la qualità del dibattito della pubblica opinione è la premessa di tutto.
Perché il riformismo che cambia strutturalmente i Paesi e li indirizza in un percorso di crescita condivisa sono quelli dove l’alternanza di governo preserva un continuum che è l’esatto contrario di ricominciare sempre tutto daccapo e dove anche l’alternanza eventuale di donne e uomini in postazioni di comando non impedisce mai di preservare il pezzo di strada buona già fatto e spinge a concentrare gli sforzi per accelerare nel cammino intrapreso. Nelle grandi democrazie occidentali dove si cambia meno è in politica estera perché la politica estera di un Paese di stazza appartiene al cuore dell’interesse generale di una comunità e si muove, dunque, o almeno dovrebbe muoversi su solchi tracciati e riconosciuti in termini di alleanze, posizionamento geopolitico, idea condivisa di assetto del suo sistema economico e di tutto ciò che serve a livello di Pese per ridurre le diseguaglianze e consolidare le performance globali.
Anche per quanto riguarda le istituzioni l’approccio riformatore di livello alto è quello che opera all’interno della vita delle stesse istituzioni avvertendone in profondità le istanze di conservazione e di innovazione perché le due cose nelle grandi democrazie stanno sempre insieme. Se si perdono queste bussole di riferimento che sono sacrosante, può accadere che perfino uomini del calibro di Bersani e Letta, ai quali di sicuro non manca il senso dello Stato, si spingano a fare dichiarazioni apodittiche del tipo “non faremo mai ritoccare la costituzione”. Come se dall’83 a oggi non si fosse già infinite volte posto il problema di ritoccare la costituzione, che ha avuto e ha meriti che nessuno deve mai dimenticare, e loro stessi e chi li ha preceduti nelle responsabilità di partito non fossero sempre stati parte attiva di questi progetti di cambiamento. Il punto è che nessuno lo dice, nessuno ricorda mai niente, e il dibattito pubblico in genere, addirittura in special modo in campagna elettorale, diventa il megafono dell’ultima cosa che gira nel talk show di turno.
Non rifarsi mai a una storia pregressa, a fatti certi e riscontrabili, francamente inquieta, ma se ci pensate bene in questo stesso filone si inserisce il vittimismo della destra ogni volta che scatta una critica, anche internazionale, che al di là di eccessi evidenti e riconoscibili sono la norma in un sistema economico così interconnesso come è quello europeo soprattutto in una fase geopolitica tesa, segnata da una guerra nel cuore dell’Europa, che prelude di sicuro a un nuovo ordine mondiale. Quanti intellettuali e politici italiani hanno più volte manifestamente espresso la loro preferenza per Macron o per la Le Pen durante la campagna elettorale francese e a urne ancora aperte? Certo, se a dare le pagelle ai politici italiani è la presidente della Commissione europea, von der Leyen, che poi dovrà trattare con la nuova classe di governo di quel Paese il problema si pone e come, tanto è vero che si è subito corretta, ma se a parlare è un intellettuale non solo c’è tutta la libertà di ascoltarlo o meno e, anche se parla molto a sproposito di fascismi e post fascismi che non esistono, non sta facendo un’ingerenza.
In generale, ciò che mi ha preoccupato in questa campagna elettorale che per fortuna si è chiusa, è l’assenza nel dibattito pubblico italiano di qualsivoglia forma di capacità veramente propositiva. Tipo: abbiamo quel problema lì, si può risolvere seriamente non con la bacchetta magica o semplicemente urlando tout court che le bollette le pagherà lo Stato, per la semplice ragione che questa non è la soluzione, può esserlo per un pezzo del problema, per un periodo limitato. Servono piuttosto ragionamenti pragmatici e azione pragmatica all’altezza della complessità dei problemi e della complessità del quadro geopolitico e finanziario internazionali. Già solo affermare questi principi significherebbe avere fatto un bel passo in avanti.
Sul Mezzogiorno, ne scriviamo da giorni, siamo tornati alla questione settentrionale della secessione di Bossi che si tradusse in una colossale infornata di assunzioni clientelari nelle regioni del Nord. Che ha di certo fatto molto male al Sud, ma ancora di più al Nord. È tutto scritto anno dopo anno nel bilancio dello Stato italiano e complessivamente nel debito pubblico del Paese che non è nient’altro che la somma algebrica dei nostri vizi privati messi sul conto della collettività. Riecheggia questa questione quando si parla di infornate di assunzioni di centinaia di migliaia di persone nella pubblica amministrazione meridionale, perché a un problema giusto che è quello di dare tecnici informatici, ingeneri e uomini di legge di valore subito, quasi si sovrappone culturalmente l’idea della solita infornata di massa clientelare che è l’inizio e la fine della vera questione meridionale.
Non siamo capaci, viceversa, di valorizzare ciò che facciamo di buono né in casa né fuori. Non abbiamo orgoglio delle nostre cose e questo è abbastanza grave se ci confrontiamo con gli altri grandi Paesi europei. La nostra democrazia ha inglobato partiti totalitari come il Pci di Togliatti o l’Msi di Almirante, è stato un processo che si è sviluppato lentamente, in parte anche con la loro collaborazione. Ci siamo riusciti, però. E oggi nella democrazia italiana non c’è più chi voglia instaurare un regime di tipo sovietico o chi voglia instaurare un regime di tipo autoritario. È una vittoria meravigliosa. Dovremmo almeno esserne un po’ più orgogliosi.
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