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La proposta della Commissione poneva l’aggiustamento di bilancio non in una gabbia di regole uguali per tutti, ma lo distribuiva diffusamente su più anni sancendo la fiducia reciproca di esercitare la discrezionalità che impedisce le strette pro-cicliche. Il nocciolo duro, su pressione della Germania che non si fida dell’Italia e con la Francia che fa i fatti suoi approfittando dell’assenza italiana, reintroduce una regola automatica per cui se hai un debito alto devi scendere a priori di un po’, e lo stesso per il deficit. Si gioca su “fattore rilevante” e scadenze temporali il potere negoziale che, per Francia e Spagna, poggia su basi solide, per l’Italia torna a rischio perché dall’inizio non ci siamo stati e poi abbiamo fatto la ripicca di non ratificare il Mes per ragioni elettorali. Urgono aggiustamenti.
I noccioli duri di comando nell’Unione Europea sono sempre esistiti. Germania e Francia ne sono i due capisaldi, più volte l’Italia è entrata in partita, raramente, ma è accaduto, ha avuto perfino un ruolo guida. Nel quadro storico delle alleanze che hanno diretto nel bene e nel male questo processo europeo, sulla tolda di comando c’è stato sempre spazio solo per questi tre Paesi e nessun altro. Il ruolo che ha svolto l’Italia con Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea, il governo della moneta, ha fatto la storia e continua a pesare. Romano Prodi non è stato certo un Presidente della Commissione europea di rango ordinario con la scelta dell’allargamento ai Paesi dell’Est e molto altro, diciamo che rientra nel solco dei grandi Presidenti alla Delors.
Fino ad oggi siamo stati sempre rappresentati nelle posizioni di potere dell’Unione europea se solo pensiamo che dopo l’uscita di scena di Draghi la guida della Vigilanza europea della Bce, che è una Presidenza vera e propria, è rimasta saldamente in mani italiane che sono quelle di Andrea Enria a fine mandato. Nell’ultima fase, per la prima volta, in termini di poltrone conseguite e di candidature, si assiste a un ruolo di rango superiore della Spagna, nostro più temibile concorrente sul Mediterraneo e economia di peso molto inferiore all’Italia, di certo favorita dalla Presidenza di turno della Unione Europea, ma che riflette in realtà qualcosa di politicamente più profondo che non va sottovalutato.
È la scelta spagnola di un europeismo convinto nel solco dei Fondatori che riguarda i socialisti come i popolari, tra di loro in competizione durissima fatta anche di colpi molto bassi, che permette di superare crisi lunghe di governabilità capitalizzando, grazie all’alleanza con il super nocciolo francotedesco, scelte economiche e posizioni di comando a loro favorevoli. L’ultima è stata la nomina di Nadia Calviño per la presidenza della Banca europea degli investimenti (Bei) di cui l’Italia è il primo azionista alla pari con Germania e Francia e non ha un presidente da mezzo secolo, ma questo non ha impedito di vedere soccombere la sua autorevole candidatura tecnica che era quella dell’ex ministro dell’Economia del governo Draghi ed ex direttore generale della Banca d’Italia, Daniele Franco.
Purtroppo, questa è la pura verità, nella partita del nuovo patto di stabilità e crescita europeo, l’Italia ha deciso di rimanere all’esterno del nocciolo duro esistente, che è quello di sempre franco-tedesco. Ha voluto rimanere fuori dalla partita che loro avevano iniziato e ha ritenuto di volere giocare da bordo campo. È stata probabilmente una scelta aspettando che mutino gli equilibri politici dopo le elezioni europee, ma è stata una scelta sbagliata sia perché in Europa le partite si giocano dal primo minuto – questo è fondamentale – sia perché non è affatto detto che anche un eventuale mutamento del quadro politico si ripercuota negli assetti di governo dell’Europa.
Quindi, questa scelta tattica del governo italiano rivela una mancanza di expertise ed è francamente doppiamente sorprendente. Perché, a differenza di ogni previsione e dei soliti catastrofismi italiani sempre interessati, Giorgia Meloni ha impiegato tutta la prima parte del 2023 proprio per entrare in partita in Europa. Ha costruito un rapporto vero con la von der Leyen, ha visto premiato il lavoro prezioso di Fitto sul Pnrr che si è sviluppato proprio secondo i canoni europei, ha potuto guidare ragionamenti e scelte nuove sul tema cruciale delle emigrazioni. Questa volta invece ha scelto di stare fuori dalla partita del nuovo Patto che si giocava dentro il nocciolo duro.
Poi improvvisamente si è ritrovata davanti al fatto compiuto del duo franco-tedesco che in misura rilevante stravolgeva con nuove gabbie l’originaria proposta della Commissione giustamente flessibile e coerente con lo spirito degli eurobond e ha commesso due errori non irrilevanti, in parte ancora rimediabili, ma non di poco conto. Il primo è stato quello di non avere subito preso più tempo, se necessario ricorrendo anche al potere di veto sulla parte di controllo più delicata che richiede l’unanimità, perché quel tempo era necessario per recuperare il ritardo iniziale su contenuti vitali e rientrava nella stessa logica che ispira il rinvio deciso per il nuovo bilancio europeo in vista delle nuove elezioni.
Il secondo errore è stato quello di cavalcare il no alla ratifica del meccanismo europeo di stabilità (Mes) che danneggia, oltre che noi, altri 18 Paesi, e ciò determina il rischio concreto che il Mes se lo facciano da soli o, peggio ancora, che prima o poi su questo o quello dei capitoli di trattativa ci facciano pagare un conto più salato. Siccome, a differenza che con il precedente della tassa sugli extraprofitti bancari maldestramente concepita e precipitosamente ritirata, lo spread non si impennerà perché la discesa dei tassi spinge in altra direzione, si riducono i margini di ravvedimento politico vista anche la crescente demagogia grillina e leghista in chiave elettorale, ma questo tuttavia nulla toglie alla estrema necessità di porre invece rimedio politico all’errore politico commesso motu proprio dal governo. Perché più tempo passa, più i pasticci si intrecciano, più diventa difficile sciogliere il groviglio che ci danneggia tantissimo nel medio periodo e poco o tanto a seconda dei comportamenti nel breve periodo.
Per capirci, la proposta originaria della Commissione era sacrosanta. Era quella che davvero spianava la strada dell’Europa federale e più si avvicinava al massimo di tutela dell’interesse nazionale italiano. Mi chiederete: perché? Per una ragione molto semplice: affrontava e risolveva il problema strutturale delle regole del vecchio patto, afflitto da zoppìa conclamata a sfavore della crescita in difesa di una finta stabilità, che era quello di costringere le economie nazionali quando andavano giù per colpe anche non loro a contrarre invece che a espandere il deficit e, quindi, contraendolo, inevitabilmente diminuivano le entrate fiscali e si attuavano tanti interventi tutti sbagliati perché prociclici. Che vuol dire interventi che invece di risolvere le crisi di fatto le aggravavano. Come ha sempre lucidamente pensato Mario Draghi, i mercati guardano di un Paese per prima cosa non all’equilibrio della politica di bilancio, ma a quanto fa di crescita quello stesso Paese. Per cui se c’è un evento esterno che fa cadere il prodotto interno lordo di quel Paese, è evidente che diminuiscono le entrate fiscali, ma sono guasti se in questa situazione oggettiva per colpe non tue sei costretto in base a una regola ottusa predeterminata, come sono quelle volute all’ultimo momento dai tedeschi su debito e deficit, a contrarre per forza in tempi contingentati anche deficit e debito.
Allora succede inevitabilmente che il prodotto cala ancora molto di più e lo spread riprende a salire aggravando ulteriormente il costo della spesa per gli interessi. Si riattiva, in questo modo, il circolo vizioso che, con l’eccezione dei due anni di governo Draghi, ha visto l’economia italiana crescere sempre meno di tutti. Questo era il principio base del circolo vizioso da rompere che la proposta tecnica della Commissione affrontava ponendo correttamente il problema dell’aggiustamento di bilancio non dentro una gabbia predefinita di regole ingiustamente uguali per tutti e temporalmente predeterminate. Il problema dell’aggiustamento di bilancio veniva intelligentemente distribuito in modo diffuso su più anni ponendo nero su bianco una condizione di fiducia reciproca in base alla quale si decideva se la stretta monetaria doveva avvenire o meno e si tutelava, dunque, questo potere di discrezionalità che avrebbe dovuto impedire i danni della trentennale miopia precedente.
Alla fine, invece, il nocciolo duro, su pressione della Germania che non si fida dell’Italia e con la Francia che si accoda facendo i fatti suoi approfittando dell’assenza italiana, reintroduce una regola automatica per cui se hai un debito molto alto devi scendere a priori di un po’, non è molto, ma lo devi fare, e la stessa cosa accade per il deficit, anche qui un po’ meno, ma lo devi fare uguale. Si è tornati a come era prima con dimensioni di aggiustamento ovviamente differenti che vuol dire molto meno pesanti, ma proprio perché meno pesanti anche più cogenti in quanto si dirà che non sono irrealistici come quelli di una volta. Bisognerà vedere bene i dettagli finali e ovviamente molto si giocherà sulla fase di discrezionalità che riguarda la definizione di “fattore rilevante” e la determinazione delle scadenze temporali.
Sarà ancora una volta decisivo il potere negoziale riconosciuto ai singoli Paesi, che per Francia e Spagna, poggia su basi solide, per l’Italia è tornato sorprendentemente a rischio perché ci siamo volontariamente tirati fuori dai giochi del nocciolo duro e abbiamo fatto la ripicca di non ratificare il Mes per ragioni essenzialmente di tipo elettorale. Urgono aggiustamenti rapidi e spiegazioni all’altezza della delicatezza della questione perché altrimenti si perde in partenza. Visto che in queste condizioni noi contiamo poco e l’Europa non esiste.
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