Giorgia Meloni e Giancarlo Giorgetti
6 minuti per la letturaLa narrazione politico-mediatica dell’economia italiana e quella che fa chi la osserva da fuori sono false. Abbiamo vissuto un secondo miracolo economico italiano durante la stagione del governo Draghi ed è merito del duo Meloni-Giorgetti avere preservato l’equilibrio della finanza pubblica confermando gli avanzi primari e riducendo la spesa pubblica previdenziale contro il populismo leghista e quello crescente del sindacalismo politico di Landini e della Sinistra allo sbando. Siamo i primi per crescita dal 2020 ad oggi e abbiamo aumentato la produttività più della media dell’eurozona
AVEVAMO titolato appena qualche giorno fa: “È la Germania in coma non l’Italia!”. Perché la Germania è entrata in recessione nel 2023, notizia sparita da tutti i giornali italiani, e si è vista dimezzare brutalmente le previsioni di crescita del 2024 in quanto la malattia della sua economia è strutturale e di durata pluriennale. La Germania non ha più né la materia prima energetica russa a basso costo né quella dell’economia del futuro che sono i microchip cinesi. Sussidia la sua economia di base, a partire da quella siderurgica, con gli stessi aiuti di Stato che non consente di fare al bilancio europeo come sarebbe invece giusto in un mondo piegato da due guerre. Frena gli obbligatori investimenti pubblici europei comuni in industria e ricerca per evitare la recessione, come ha fatto con successo l’America di Biden.
Questa Germania, tanto malconcia quanto arrogante, vuole ingabbiare tutto in un nuovo patto europeo che consente con la solita politica dei decimali, di deficit e di debito, penalizzante per le economie europee più vitali, a partire da quella italiana, di scaricare sugli altri il conto della sua malattia coprendosi dietro la foglia di fico di qualche deroga agli investimenti del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) e di poco altro che verrebbe di fatto annullata dal formalismo burocratico europeo che tutto frena o blocca.
Avevamo fatto quel titolo perché l’Italia nonostante il rallentamento della crescita e un piccolo ritocco all’ingiù per il 2024 della Commissione, +0,9 contro +1,2%, resta l’economia che dall’inizio del Covid ad oggi ha avuto la migliore performance e, come documenta da par suo Fabrizio Galimberti, sulla base dei dati Eurostat, il Covid è stato lo spartiacque della storia dell’economia italiana. Dal 2009 al 2019 l’Italia era il fanalino di coda dell’Europa per la crescita e la produttività. A partire dal 2020 cambia tutto: non solo siamo i primi per crescita, ma la produttività aumenta in misura nettamente superiore alla media dell’eurozona. È cresciuta la produttività del lavoro, nonostante il forte incremento di occupati a tempo indeterminato che è un’altra notizia positiva taciuta da tutti. È cresciuta la produttività del capitale e del totale dei fattori nei quali rientrano progresso tecnico e coesione sociale, contributo delle infrastrutture e qualità delle istituzioni e del funzionamento della amministrazione. Che restano ovviamente il terreno su cui dobbiamo fare ancora moltissimo, ma su cui non siamo più immobili.
Abbiamo cominciato a fare un pezzetto di strada anche se gli inizi del cambiamento si scontrano contro il muro dei luoghi comuni che tutto copre. Avevamo scritto allora, e lo ripetiamo ormai da tempo, che il racconto che facciamo noi dell’economia italiana e quello che fa chi la osserva da fuori sono entrambi totalmente sbagliati. Abbiamo vissuto un secondo miracolo economico italiano durante la stagione del governo Draghi ed è merito assoluto di Giorgia Meloni e di Giancarlo Giorgetti avere preservato l’equilibrio della finanza pubblica confermando gli avanzi primari e riducendo la spesa pubblica previdenziale contro il populismo leghista di sempre che è dentro la sua maggioranza di governo e contro il populismo crescente del sindacalismo politico di Landini e della Sinistra più frammentata e debole dal Dopoguerra a oggi.
Per queste ragioni il giudizio di Moody’s che migliora l’outlook da negativo a stabile e conferma il rating per l’Italia è una sorpresa per gli altri, non per noi. Anzi, la nostra posizione è chiara da tempo: tutte le agenzie di rating, in particolare proprio Moody’s, dovrebbero migliorare di molto la posizione italiana, ma non lo fanno perché continuano a non avere le lenti giuste per inquadrare la realtà dell’economia italiana e la sua solidità nonostante l’indiscutibile record del debito pubblico, oltre il 140% del Pil. Che impone, appunto, di non derogare mai dalla linea di prudenza di finanza pubblica del duo Meloni-Giorgetti che esprime il meglio del senso di responsabilità collettiva oggi in circolazione ed è stato premiato dal cambio di segno di prospettiva perfino da Moody’s con le sue lenti distorte. Chiarito questo, ci vorrebbero una classe politico-sindacale e una qualità del dibattito della pubblica opinione del Paese – riguarda direttamente chi fa informazione in tutti i campi – che favorissero un racconto veritiero della nostra economia e consentissero una percezione di questo racconto più vicina alla realtà nonostante il frastuono del nulla dei nostri talk show. Perché è un dato di fatto che si continuano pericolosamente a sottovalutare le perfomance di un Paese che è arrivato a esportare nei primi sei mesi dell’anno quanto il Giappone, mai successo prima.
È altresì un dato di fatto che l’Italia ha il maggiore livello di diversificazione di settori produttivi e di prodotto, si colloca per robotizzazione dei suoi processi sempre sul podio mondiale, e ha un avanzo commerciale che Francia e Spagna nemmeno vedono con il binocolo. È l’Italia ad avere una posizione finanziaria netta positiva, che anche questa Francia e Spagna possono solo sognare, e a potere vantare un consolidamento senza precedenti delle sue banche che tutte le agenzie di rating sottolineano e che consente di dire, ci permettiamo di aggiungere, che nessuno scambierebbe mai la prima banca italiana con la prima banca tedesca. Abbiamo una ricchezza privata che non teme confronti con gli altri Paesi europei e che ovviamente la bolla inflazionistica, peraltro in fase avanzata di rientro in Europa, ha lievemente eroso ma senza mai metterne in discussione il primato assoluto.
D’altro canto i mercati avevano già capito tutto visto che siamo passati in pochi giorni da un rendimento del 5% sul BTp decennale, legato alle fibrillazioni pre-Nadef e pre-manovra, al 4,274 di venerdì scorso, che non vuol dire affatto che il focus speciale sull’Italia è sparito, ma che è stato accantonato. D’altro canto, Moody’s, anche questo lo avevamo già scritto, aveva indicato una serie di esercizi in base ai quali ci avrebbe declassato al livello di titoli senza merito creditizio e, quindi, spazzatura, ma avevamo voluto chiarire subito che noi quegli esercizi li avevamo svolti. Per essere bocciati servivano un indebolimento significativo dell’economia e della forza finanziaria, un minore impegno del governo “nell’implementare il Pnrr”, il ritorno “della crisi energetica” e segnali di un “significativo aumento della dinamica del debito”. Nulla di tutto ciò è avvenuto, molto di più di quello richiesto è stato fatto e si continua a fare nonostante un quadro esterno denso di incognite.
Se cominciassimo a dire la verità sull’Italia molte cose cambierebbero, ci troveremmo a marzo dell’anno prossimo a scoprire che siamo anche i primi negli investimenti legati all’attuazione dei fondi europei del Pnrr e che la fiducia contagiosa che ne discende mobilita investimenti e consumi privati. Se dicessimo semplicemente la verità sulla nostra economia, smettendola di omettere il racconto del miracolo e della sua coda rilevante, favoriremmo le scelte di responsabilità della politica in casa e avremmo la forza in Europa per giocare le carte del futuro che oggi servono ancora di più alla Germania che all’Italia.
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