Daniele Franco
7 minuti per la letturaLa partita da vincere riguarda Mediterraneo, clima e industria. Italia, Germania e Francia hanno il 19% a testa del capitale della banca e, dopo mezzo secolo, la presidenza italiana per un candidato autorevole come Franco è sacrosanta. Alla Bce i tre stessi Paesi hanno oltre il 60% del capitale sottoscritto e nessuno si permette di discutere la sostituzione di Panetta con un altro italiano. La Spagna è già nel board della Bce, guida l’Eba e non ha titolo per accampare altre pretese come la Bei e la Vigilanza della Bce. La Meloni entri a piedi uniti e con gli scarponi in questa partita.
La Cina vive la stagione più difficile degli ultimi 40 anni. La sua moneta si è deprezzata come cambio effettivo nominale del 10% rispetto alla fase pre-Covid, il debito complessivo pubblico-privato-locale è pari al 300% del Pil. Il più grande operatore privato immobiliare, Country Garden, non è riuscito a pagare gli interessi sui bond. Il caso Evergrande, perdite ufficializzate per oltre 80 miliardi di dollari tra 2021 e 2022, con le sue ramificazioni finanziarie americane e alle spalle il sistema di banche ombra cinesi allo sbando, alimentano i sospetti peggiori sulla bolla cinese e fanno ritenere come acquisito, nella migliore delle ipotesi, un rallentamento della crescita globale per il forte ridimensionamento del contributo della Cina.
La persistenza della crisi strutturale tedesca è ribadita dalle previsioni della Bundesbank che confermano per la principale economia europea, che è quella tedesca, ancora un terzo trimestre di stagnazione ripetendo un quadro che si protrae ormai stabilmente da circa due anni e indica la dimensione qualitativa e quantitativa della crisi tedesca di lungo termine. La caduta del rublo e dell’economia russa con una fuga di capitali in atto nonostante le restrizioni e i tassi rialzati completano il quadro pesante dell’economia mondiale che assomiglia sempre di più a quello di un’economia di guerra.
Gli Stati Uniti sono quelli che vanno meno peggio, ma non risolvono il problema. Sull’Europa che finora ha tenuto, con ritmi diversificati di crescita da Paese a Paese, aumentano gli elementi di incertezza e i rischi recessivi. Di fronte a uno scenario globale economico così pesante sul quale pesa la spada di Damocle di un conflitto militare nel cuore dell’Europa che non finisce e di un quadro geopolitico che è sempre più conflitto di civiltà tra le due grandi autocrazie (Cina e Russia) in crisi nera e mondo Occidentale che se la passa un poco meglio ma è pieno di nuvoloni, c’è un’Italia che sul piano economico ha fatto sempre meglio degli altri dal Covid ad oggi ma che ora comincia a rischiare.
Per questo non vanno affatto sottovalutate le parole di ieri del ministro Giorgetti sulla complicazione e il realismo che dovranno ispirare la nostra legge di bilancio e, ancora di più, il richiamo a fare bene sugli investimenti del Pnrr e a difendere gli investimenti privilegiati con il nuovo patto europeo di stabilità e sviluppo.
La grande battaglia della crescita italiana per il prossimo triennio è quella degli investimenti e, per questa ragione, ci permettiamo di insistere affinché la premier, Giorgia Meloni, metta al primo punto della sua agenda la battaglia per la presidenza italiana della Banca europea degli investimenti che avrà un ruolo decisivo negli investimenti in Africa, sul clima e in tutto il Mediterraneo, nella ricostruzione dell’Ucraina e nella politica industriale europea. Già oggi l’Italia è il principale cliente della Bei.
Ha di sicuro un candidato autorevole su cui spingere, l’ex ministro dell’Economia Daniele Franco, e la Meloni non può nemmeno accettare il principio che qualcuno sul piano interno si permetta di alimentare un inesistente dibattito a livello internazionale per cui avere la presidenza della Bei significherebbe per l’Italia rinunciare alla sostituzione del posto di Panetta, designato come nuovo governatore della Banca d’Italia, nel board della Bce con un altro italiano. Chiariamoci subito: qui la gara per la presidenza della Bei non è tra di noi, ma con la Spagna e il suo capo di governo dimissionario Sánchez che in palese conflitto di interessi agisce come presidente dell’Unione europea, va a colloquio con il cancelliere tedesco Scholz, e ottiene il via libera per la sua ministra dell’Economia, Nadia Maria Calviño, anch’essa dimissionaria, per la guida della Banca europea che gestirà la partita di medio periodo che deciderà il futuro dell’Europa a partire dal Mediterraneo.
Siamo al cuore del Piano Mattei e si sta rinunciando a combattere una battaglia di sistema Paese che si può e si deve vincere su un concorrente europeo a vocazione mediterranea, appunto la Spagna, che non ha alcun titolo rispetto a noi per aspirare a quella poltrona. Avere stabilmente un guida italiana sulla tolda di comando della Bei potrebbe fare la differenza e sarebbe bene che lo si capisse subito se si vuole davvero tutelare l’interesse nazionale dove si tutela e, cioè, fuori casa. Sarebbe bene che l’Italia si unisca su questa partita perché è molto più importante di quella che appare.
Per sgombrare il campo da ogni genere di equivoci che l’analfabetismo mediatico interno continua ad alimentare, è bene chiarire subito che rispetto al 100% dei Paesi dell’area euro il capitale della Bce è sottoscritto all’81% e, quindi, usando il denominatore corretto ci ritroviamo con una Germania che pesa il 25, la Francia il 19/20, l’Italia il 16,5/17 che messi insieme sono ben oltre il 60% del capitale della banca detenuto dai Paesi Fondatori dell’Europa. A nessuno è, dunque, mai passato per la testa di escludere un tedesco o un francese o un italiano dal board della Bce e non bisogna dunque chiedere un piacere a nessuno per sostituire Panetta con un altro rappresentante italiano.
Anche perché, oltre al comitato esecutivo, c’è il Consiglio della Banca centrale europea costituito da altri venti membri che sono i governatori delle banche centrali nazionali. Per cui su 26 membri i tre primi azionisti avrebbero solo due rappresentanti a testa e, quindi, ad essere fortemente sopravvalutati e sovrarappresentati sono tutti i piccoli a salire fino alla stessa Spagna che ha la sua rappresentanza nel board della Bce e ha posto la candidatura oggi più avanti di tutta per sostituire a fine anno l’italiano Enria alla guida della Vigilanza bancaria, seconda posizione nella Bce dopo la Lagarde.
Non esiste una regola scritta, ma la presenza di un italiano nel board della Bce è da ritenersi assolutamente scontata e siccome nessuno pone il problema non si vede proprio perché dovremmo porlo noi. Potrebbe essere un precedente pericoloso. Non è neppure finita perché se ci spostiamo sulla Bei scopriamo che Italia, Francia e Germania hanno il 19% a testa del capitale e, quindi, dopo oltre mezzo secolo, non è un diritto naturale ma una legittima aspirazione che l’Italia candidi un ex ministro dell’Economia, ex Ragioniere generale dello Stato e ex direttore generale della Banca d’Italia, stimato da tutti, come presidente della Bei.
Anche perché in questo momento non ci sono più posizioni italiane di prestigio all’estero e la Spagna ha molti meno titoli di noi, non si capisce nemmeno da chi sarà governata, e ha già la presidenza dell’Eba. Giorgia Meloni si deve muovere in prima persona e gli altri Paesi devono percepire che l’Italia ha ben presente il quadro reale della situazione e non può accettare che la Spagna si prenda la Bei. L’Italia deve entrare a piedi uniti e con gli scarponi in questa gara. Perché gli altri devono avere la certezza che la partita della Bei non è solo la partita del Mef e di Giorgetti che ha dato segni inequivoci della sua insoddisfazione anche sul tema della designazione per il board della Bce.
È di sicuro quello che ha visto più lungo e prima di tutti e sa bene che i due obiettivi sono diversi affatto incompatibili. Perché uno (board Bce) è un atto dovuto, l’altro è ampiamente alla portata dell’Italia a patto che si voglia fare una vera operazione di sistema e la Meloni se la intesti ponendo sul tavolo il peso della sua leadership politica. Tutelare l’interesse nazionale e dare una mano a sostenere quella crescita a rischio che deve rendere sostenibile il debito italiano nel lungo periodo, lo si fa vincendo queste grandi partite internazionali senza farsi risucchiare da rigurgiti populisti interni.
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