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Alla Bce non si va più a fari spenti nella notte. È lecito attendersi un aumento di un quarto di punto a giugno, a luglio la partita si gioca, ma a settembre è chiusa. Quello che c’è sotto è l’andamento complessivo dell’economia europea. A salvare l’Europa dalla recessione sono i Paesi del Sud Europa – come Portogallo, Spagna, Grecia – tutti in crescita grazie al traino di turismo e servizi e guidati dalla leadership dell’Italia che ha una dimensione di economia molto più rilevante e che unisce a questo dato-record di turismo e servizi un buon andamento dell’export e dei consumi interni. Anche la Francia, seconda economia europea, beneficia della sua quota di turismo e servizi e cresce anche se di poco. È questa specifica quota di valore aggiunto del Sud Europa a compensare la rovinosa recessione della Germania. Il mondo si è davvero capovolto.
Sarebbe bene che oggi qualcuno si ricordasse di quando Fabio Panetta disse che non si poteva guidare a fari spenti nella notte della politica monetaria europea. Perché non si può giocare con i tassi e, soprattutto, non lo si può fare prevedendo ciò che è imprevedibile e, quindi, la valutazione corretta è quella di regolarsi sulle evidenze fattuali e agire di conseguenza. Annunciare a prescindere aumenti dei tassi a tre e quattro mesi a botte di mezzo punto o di tre quarti di punto alla volta era una follia peraltro pelosa.
Perché i costi che ogni singolo Paese paga per queste aspettative sono differenti visto che in Europa persistono i mercati dei titoli sovrani nazionali e i differenziali pesano sui costi dei rispettivi bilanci pubblici. Fatto sta che la realtà di oggi ci dice che l’inflazione europea sta scendendo abbastanza rapidamente. È passata dal 7 al 6,1% ma, cosa ancora più importante, comincia a scendere anche quella core, vuol dire al netto dell’energia, che scala dal 5,6 al 5,3%. Diciamo che è lecito attendersi ancora un aumento di un quarto di punto a giugno, che su un altro quarto di punto a luglio la partita è da giocarsi, ma che a settembre la partita è chiusa. Quello che, però, c’è sotto è qualcosa di molto più strutturale e riguarda proprio l’andamento complessivo dell’economia europea.
Il punto di assoluta novità è che a salvare l’Europa dalla recessione sono i Paesi del Sud Europa – come Grecia, Portogallo, Spagna – tutti in crescita grazie al traino di turismo e servizi favoriti anche dal cambio favorevole con il dollaro senza contare il peso assoluto dell’Italia che ha una dimensione di economia molto più rilevante e che unisce a questo dato-record di turismo e servizi pure un buon andamento dell’export e dei suoi consumi interni. Anche la Francia, che è la seconda economia europea in termini di Pil, beneficia in misura minore della sua quota di turismo e servizi e anche se di poco (+0,2%) continua a crescere. È ormai chiaro a tutti che è proprio questa specifica quota di valore aggiunto dei Paesi del Sud Europa a compensare la caduta in recessione della Germania. Si passa nel primo trimestre di quest’anno, sul piano congiunturale, dal -0,3% della Germania al +0,6% dell’Italia.
La morale è che se non ci fosse il Sud Europa il continente europeo sarebbe in recessione anche perché, pure questo è ora evidente a tutti, la crisi tedesca non è più temporanea, perché è proprio il suo modello di crescita ad essere entrato in una difficoltà strutturale. Non ha più energia a basso costo dalla Russia di Putin su cui faceva molto affidamento la sua manifattura e non ha la crescita turistica e di servizi dei Paesi del Sud Europa.
Soprattutto la Germania si trova a fare i conti spietatissimi con il suo modello di crescita virtuosa basata su un mercantilismo moderno per cui si tiene bassa dentro la domanda interna tanto noi siamo tra le più grandi economie del mondo e facciamo faville con la nostra manifattura in Cina e ovunque. Non è più così perché la Cina va molto male e, oltre ad avere una congiuntura sfavorevole, sta cercando di sviluppare la sua cosiddetta economia strategica che vuol dire indipendenza economica.
La vera novità è che anche i cinesi stanno cercando di sviluppare la domanda interna con una propria politica tariffaria e non intendono più essere alla mercé degli altri. Per cui la Germania non ha oggi solo la difficoltà di non avere più dalla Cina in abbondanza la tecnologia che prendeva a buon mercato per fare le sue macchine, ma si ritrova un ex alleato cinese che non solo non è più pronto a comprare le sue Mercedes come le comprava prima, ma che vuole fare le auto elettriche e rivenderle in Europa, che compra le mucche dalla Svizzera, che vuole produrre anche il vino.
Hanno un mercato interno con una domanda di ben oltre un miliardo di persone che è pari a quasi tre volte quello europeo, per capirci, e stanno decidendo di giocarselo in proprio. Il quadro strutturale, insomma, è davvero cambiato. Questa crisi assomiglia a quella che dovette affrontare Schröder prima dell’arrivo della Merkel e impone una grande ristrutturazione della manifattura da cui dipende ancora il 21% del loro Pil. Non è una passeggiata per loro e non potrebbero mancare le ripercussioni anche per noi visti i collegamenti tra le due manifatture. Una cosa, però, è certa: la Germania e l’Italia dovranno fare i conti con le delocalizzazioni, ma noi partiamo avvantaggiati per ragioni geografiche e storiche e possiamo giocarcela alla grande. Questo, però, è un altro discorso piuttosto articolato e ne parliamo domani.
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