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Il secondo trimestre viaggia verso un +0,5% come minimo in un contesto internazionale complicatissimo. Siamo a molto di più dello 0,1 del primo trimestre e siccome abbiamo un + 2,4% acquisito è facile capire che rispetto all’obiettivo programmato del 3,1% del governo manca poco visto che ci collochiamo in un range che parte dal 2,9%. La produzione industriale ad aprile è cresciuta dell’1,6% contro la previsione di -2,5. Ovviamente se nei trimestri successivi si avvera la catastrofe con una spirale sullo spread italiano determinata dal rischio politico interno – le componenti euroscettiche che non perdono occasione per accrescere agli occhi degli investitori globali masochisticamente un inesistente rischio di ridenominazione dall’euro alla lira – e dagli errori di comunicazione della Lagarde su rischio di frammentazione e altro ancora, allora è chiaro che cambia tutto. Ecco come è possibile che Spagna e Portogallo che hanno posizioni finanziarie nette verso l’estero fortemente negative abbiano uno spread di 100 punti migliore dell’Italia che insieme con la Germania ha un saldo estero positivo ed è impegnata su un cammino di riforme di struttura concordato con l’Europa che i mercati non possono non apprezzare. Capite dove può portare il catastrofismo?
Siamo stati gli unici a dire che il Pil italiano del primo trimestre si sarebbe chiuso di pochissimo in positivo (+0,1%) e che il secondo trimestre sarebbe andato ancora meglio. Oggi vi diciamo che viaggia verso un +0,5% come minimo in un contesto internazionale complicatissimo. Siamo a molto di più dello 0,1 del primo trimestre e siccome abbiamo un +2,4% acquisito è facile capire che rispetto all’obiettivo programmato del 3,1% del governo manca pochissimo visto che ci collochiamo in un range che parte dal 2,9% tra crescita acquisita dal 2021 e nuova crescita dei primi due trimestri del 2022.
Quelli, per intenderci, della cosiddetta probabile recessione tecnica secondo l’universo, o quasi, dei commentatori e analisti italiani. Ovviamente se nei trimestri successivi si avvera la catastrofe con una spirale sullo spread italiano determinata dal rischio politico interno – le componenti euroscettiche che non perdono occasione per accrescere agli occhi degli investitori globali il rischio di ridenominazione dall’euro alla lira che peraltro non esiste e si rasenta quindi il masochismo – e dagli errori di comunicazione della Lagarde su rischio di frammentazione e altro ancora, allora è chiaro che cambia tutto.
A oggi i dati sono che l’economia italiana va bene, la produzione industriale che ad aprile secondo Confindustria doveva fare meno 2,5 cresce dell’1,6%, servizi, turismo e edilizia riservano solo sorprese positive in maniera davvero importante e c’è un problema di reperibilità di mano d’opera di ogni tipo causa lentezze e ritardi diffusi nell’applicazione dei nuovi meccanismi di controllo e di reimpiego della vastissima platea di fruitori del reddito di cittadinanza. Il fabbisogno di cassa dei primi cinque mesi è passato da 69 a 36 miliardi, ma soprattutto – cosa che non dice nessuno – la posizione italiana verso l’estero è positiva e, dopo la Germania, rappresenta la migliore performance europea.
Il confronto tra attività e passività del Paese segnala che l’Italia da due anni è tornata in zona positiva in quanto i crediti superano i debiti nel loro complesso perché prima abbiamo inanellato una serie di avanzi consecutivi poi abbiamo fatto bene e ora, in questo momento, non abbiamo più bisogno dell’estero. Il rapporto sulla stabilità finanziaria della Banca d’Italia 2022, tavola A 1 “indicatori di sostenibilità finanziaria” pag. 75, ci dice che la posizione netta sull’estero dell’Italia in rapporto al prodotto interno lordo (Pil) è più 6%, partivamo da -21, e si confronta con una Francia che fa – 32,7, una Spagna che fa meno 77,3, Portogallo – 99,7, Grecia -176, Regno Unito fermo a meno 22,1. Meglio di noi e di tutti fa solo la Germania con uno strepitoso più 65,5%. Questi sono i fatti dell’economia italiana nel mezzo di una guerra mondiale a pezzetti, copyright Romano Prodi, e di tre grandi shock inflazionistico, energetico, alimentare.
Come è possibile che Spagna e Portogallo che hanno posizioni finanziarie nette verso l’estero fortemente negative abbiano uno spread di 100 punti migliore dell’Italia che insieme con la Germania ha un saldo estero positivo ed è impegnata su un cammino di riforme di struttura concordato con l’Europa che i mercati non possono non apprezzare?
È evidente che in questo contesto chi in Italia ha un minimo di ragionevolezza non deve aggiungere problemi a problemi. Esempio. Manifattura? È un disastro, ma poi si scopre che non è vero. Quasi senza accorgersene si fabbrica disastro economico su una situazione che è già di molto disastrata sul piano internazionale e di fronte alla quale si sta tenendo botta. Il rischio politico è già molto elevato e qui davvero non si scherza. Anche perché la variabile politica è difficilmente controllabile e già i mercati si interrogano sul fatto che, dopo le elezioni, ci sarà una combinazione politica complicata.
Anche perché la politica di oggi incurante di tutto è tornata a ripetere i suoi slogan elettorali anti Europa e continua per le stesse ragioni elettorali a promettere soldi a tutti. Riescono nel miracolo di fare sparire dal radar dei mercati i fondamentali dell’economia della Repubblica italiana messi miracolosamente a posto perché tutto è avvolto dalla nuvola del rischio politico inventato di ridenominazione che è l’esatto contrario di quello che si dovrebbe fare e, cioè, rivendicare i risultati economici raggiunti. Diciamocela proprio tutta. Si fa i conti con una tendenza culturale e di una parte dei ceti produttivi a stressare ogni notizia contribuendo di fatto alla recessione e andando di fatto contro i propri interessi.
Questo vuol dire che tecnicamente c’è un problema perché c’è sempre una tendenza innestata al pessimismo e alla denigrazione e tutto ciò si traduce solo in un modo molto concreto di riavviare una spirale negativa. Il caso più emblematico è quello dell’automotive. Il governo di unità nazionale ha stanziato anzi tempo, senza che nessuno lo chiedesse, settecento milioni all’anno di incentivi, poi a salire.
Peraltro anche incentivi agli acquisti fino al 2030, il ministero per lo Sviluppo industriale è impegnato in prima linea in casa e fuori ma l’idea percepita del dibattito della pubblica opinione sul tema è quella del disastro inevitabile. Il fatto che i risultati raggiunti e, cioè, la miracolosa tenuta della nostra economia rispetto alle previsioni dopo che il prezzo del gas si è come minimo quadruplicato sono anche al netto del contributo del Piano nazionale di ripresa e di resilienza, dovrebbe indurre maggiore fiducia, invece no. I 45 obiettivi a fine giugno verranno tutti raggiunti e gli assegni europei verranno incassati, ma i pagamenti per la nostra economia in corso d’opera sono pari a poco più di cinque miliardi. Il grosso verrà dopo.
Perché tutti gli obiettivi di cui si parla sono riforme e bandi, accordi sull’idrogeno, un piano vero che investe sulla rete ferroviaria italiana per la prima volta fino alla punta della Calabria e nell’intera Sicilia, ma i cantieri è previsto che si aprano nel 2023 e questo è il punto chiave. È un fatto, dunque, che i risultati dell’economia di oggi sono ancora al netto dei veri pagamenti del Pnrr e che i piani delle città, grazie a sindaci di valore come Manfredi e Bucci, stanno ridisegnando il futuro di Napoli e Genova, ma anche a Torino, Bologna, a Roma qualcosa si muove, Milano continua a fare il suo.
Infine, c’è il problema di comunicazione della Banca centrale europea che riguarda il modo in cui si comunicano i messaggi che sono inviati sull’uso di uno strumento per evitare la cosiddetta frammentazione. Se si fosse più chiari nel trasferire a tutti la certezza che questa frammentazione si eviterà, le cose andrebbero molto meglio. Perché è pacifico che i tassi debbono salire, ma non è affatto pacifico il problema che devono salire in modo anomalo i tassi italiani. Di questo, però, parliamo bene domani.
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