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Il nostro costo sul debito scenderà da una spesa media pari al 3,5% del Pil del 2020 al 2,5% del Pil del 2024 anche se la Banca centrale europea dovesse accelerare sull’uscita dalla politica monetaria super accomodante. Come è possibile? Perché i costi per i nuovi collocamenti di titoli pubblici a lungo termine si vanno a confrontare con quelli oggi in scadenza che sono i titoli della grande crisi dei debiti sovrani del 2011-2012. Se all’epoca pagavamo addirittura il 5-6% sui titoli a lungo termine dato che il rischio di default sovrano era considerato da tutti reale, nel 2024 riusciremo a pagare 50,45 miliardi contro i 60,48 nel 2020 – 10 in meno – e contro i 58 previsti del 2021. Quindi non mettiamoci a giocare sulle pensioni per i soliti motivi di propaganda proprio nel giorno in cui Standard & Poor’s cambia l’outlook dell’Italia da stabile a positivo perché crede nel cambiamento innescato dal governo di unità nazionale guidato da Draghi
Non avremo più tutte le nostre emissioni di debito pubblico integralmente sottoscritte dall’eurosistema, ma il nostro costo sul debito scenderà da una spesa media pari al 3,5% del Prodotto interno lordo (Pil) del 2020 al 2,5% del Pil del 2024 anche se la Banca centrale europea dovesse accelerare sull’uscita dalla politica monetaria superaccomodante. Uscita che presumibilmente avverrà, tra l’altro, in maniera graduale senza shock per nessuno.
Vi domanderete: come è possibile? Come può succedere che aumentano i tassi e noi spendiamo mediamente meno di interessi per collocare i nostri titoli pubblici? Come può accadere che l’anno prossimo dovremo piazzare una ventina/trentina di miliardi di titoli a medio-lungo termine e che il costo medio del debito nonostante una mano meno amica della Bce negli acquisti, scenderà come detto dal 3,5 al 2,5% del Pil? Per una ragione molto semplice. Che è la seguente: i costi per i nuovi collocamenti di titoli pubblici a lungo termine si vanno a confrontare con quelli oggi in scadenza che sono i titoli della grande crisi dei debiti sovrani del 2011/2012.
Siccome la matematica non è un’opinione, è evidente che se all’epoca pagavamo addirittura il 5/6% sui titoli a lungo temine dato che il rischio di default sovrano era considerato da tutti reale, è viceversa altrettanto evidente ai più che il confronto con quei numeri monstre ci informa che vi sarà in questa stagione un risparmio consistente sui tassi di interesse che andremo a pagare. Ci ritroveremo nella situazione che avremo ancora sulle spalle il fardello del nostro gigantesco debito pubblico, ma riusciremo a pagare dieci miliardi in meno di tassi di interesse nel 2024: pagheremo 50,45 miliardi contro i 60,48 nel 2020 e i 58 previsti del 2021. Questo significa uscire dal rischio più grande e incamminarsi sulla strada della ricostruzione.
Purtroppo, però, c’è il rischio di equivocare. Perché non c’è piena consapevolezza che dopo il nuovo ’29 mondiale abbiamo il debito pubblico più alto della storia (oltre il 150% del Pil) e che la sua sostenibilità (sorprese bancarie a parte tipo MPS e fratellini minori) è molto legata al regime pensionistico adottato. Altrimenti non potrebbe accadere che ci mettiamo a giocare sulle pensioni per i soliti motivi di propaganda proprio nel giorno in cui Standard & Poor’s cambia l’outlook dell’Italia da stabile a positivo perché crede nel cambiamento innescato dal governo di unità nazionale guidato da Draghi. Quando possiamo ragionevolmente sfruttare gli spazi fiscali che i mercati provvidenzialmente ci aprono su un arco temporale più lungo per sostenere e consolidare la ripresa. I partiti del rumore, Lega in testa, non rinunciano ai loro giochetti su quota 100 e dintorni. Che peraltro sono tutti a vuoto perché tutte queste acrobazie dialettiche non portano da nessuna parte.
Hanno solo l’unico risultato di disorientare ulteriormente i cittadini-elettori e fare sorgere qualche dubbio in giro per il mondo sulla reale capacità di cambiamento del Paese e più specificamente sul suo tasso reale di riformismo.
Sottovalutano che in questa situazione ci giochiamo tutto sulla capacità di mantenere la rotta ferma nel perseguire un taglio shock del cuneo fiscale e contributivo che grava sui lavoratori di tutte le categorie e nel mettere in condizioni la macchina pubblica degli investimenti di marciare a pieno regime. Da qui non si scappa. Perché qui, anzi solo qui, si può costruire qualcosa di importante che ha effetti duraturi nel tempo. A patto che si capisca una volta per tutte qual è la reale situazione del Mezzogiorno. Che qui i progetti scarseggiano. Che i tecnici informatici nella pubblica amministrazione sono abbastanza rari. Che la nuova organizzazione ancora non è decollata. Che la priorità delle priorità è non bloccare di nuovo la macchina pubblica della spesa produttiva da pochissimo rimessa in moto e la sua guida consapevole della difficoltà del cammino.
La partita della rinascita l’Italia la gioca nel suo Mezzogiorno dove deve ricostruire condizioni di efficienza del sistema ambientale e deve consolidare fortemente il suo apparato industriale privilegiandolo nella politica di riduzione dei prelievi fiscali e contributivi. Perché l’Italia oggi come nel Dopoguerra sarà il Mezzogiorno industriale che sarà. Si pensi al futuro piuttosto che a litigare sulla propaganda. I partiti del rumore si rendano almeno conto che gli italiani sono cambiati e non hanno più voglia di essere circuiti con mance e bonus. Vogliono un futuro di qualità per i nostri giovani, non prebende assistenziali per chi ha già avuto. Il rumore non funziona più neppure nell’urna.
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Nel 2012, in piena Grande Recessione, abbiamo pagato 86 miliardi di interessi passivi, pari al 5,2% del PIL. E le società di rating hanno avuto un peso nella dinamica del servizio del debito.
Traggo dal mio saggio sulla XVI legislatura (fine 2018).
9. Debito pubblico
Nonostante il mastodontico consolidamento fiscale, il debito pubblico è aumentato durante il IV Governo Berlusconi (durato 3 anni e mezzo), con ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti, di 260
miliardi, passando da 1.650 a 1.910 miliardi e dal 103 per cento del Pil nel 2008 al 119 per cento nel 2011, anche per il calo di 170 miliardi del denominatore (Pil) e per il contributo ai fondi salva-Stati (i dati sono quelli ante revisione ISTAT).
Qui è utile fare una digressione. Il debito pubblico dell’Italia, con quasi il 132 per cento, è il più alto in rapporto al Pil in ambito UE dopo la Grecia, più del doppio del parametro di Maastricht, che com’è noto è del 60 per cento. Questo, secondo i critici, giustificherebbe la «discriminazione» dell’Italia nell’applicazione dei parametri rispetto agli altri Paesi, tra cui la Spagna, che ha attualmente un rapporto debito/Pil pari al 99 per cento, mentre prima della crisi economica era al 40 per cento.[133] Il che significa che è cresciuto molto più di quello italiano, analogamente a come è avvenuto, peraltro, a tutti i Paesi di confronto, poiché l’Italia – come abbiamo visto – ha speso molto meno degli altri sia per il salvataggio delle banche, sia per la crescita. Infatti, il debito italiano (i valori sono quelli non rettificati dall’ISTAT, ante revisione dei criteri di calcolo del Pil) è passato dal 103 per cento nel 2008 (1.650 mld, 2° Governo Prodi) al 119 per cento nel 2011 (1.910 mld, 4° Governo Berlusconi, durato 3 anni, 6 mesi e 8 giorni, +360 mld, di cui 13 mld di sostegni), al 128 per cento nel 2013 (2.040 miliardi, Governo Monti, durato 1 anno, 5 mesi e 12 giorni, +130 mld, di cui 30 mld di sostegni, il che smentisce la vulgata che sia cresciuto più del debito del Governo Berlusconi) e, inclusi 58 mld di sostegni agli altri Paesi, al 131,5 per cento attuale (2.323 mld al
30.06.2018),[134] quindi è ulteriormente aumentato in cinque anni e tre mesi di 273 miliardi, con un incremento percentuale del rapporto debito/Pil dal 2008 pari al +28,2 per cento; mentre quello spagnolo è
cresciuto dal 40 per cento del 2008 al 99 per cento attuale, con un incremento percentuale del +147,5 per cento, ossia più del quintuplo dell’Italia.
Nonostante ciò, l’ammontare degli interessi passivi, grazie alla politica monetaria finalmente espansiva della BCE, è sceso dal picco di 86 mld nel 2012 (inclusi 3 miliardi circa di swap, cioè gli strumenti derivati) a 66 nel 2017.[135] Ma il dato ‘anomalo’ non è 66 bensì 86. Anzi, a ben vedere è anomalo anche 66, poiché l’Italia col 4 per cento ha il primato (escluso il Portogallo) in UE dell’incidenza percentuale della spesa degli interessi passivi sul Pil. E ciò avviene anche per il mancato controllo per troppi anni del tasso d’interesse, variabile fondamentale considerato che, secondo la Banca d’Italia, l’unica determinante dell’aumento del debito pubblico, da 27 anni, tranne uno all’apice della crisi (2009), è la spesa per
interessi passivi.
[…]
10. Società di rating. Cenni sulla sentenza del Tribunale di Trani contro S&P’s e sulla relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche
Uno degli attori delle crisi economico-finanziarie sono le società di rating. Esse sono da tempo un problema serio (anche per la prociclicità dei loro giudizi, che impattano negativamente sui tassi d’interesse), che non ha ancora trovato una soluzione adeguata a livello UE.
Situazione. Il rating attuale dell’Italia è scandalosamente sottovalutato rispetto a quello relativo a periodi in cui i fondamentali economici erano peggiori e non erano state ancora implementate le cosiddette riforme strutturali.
Il prof. Marco Fortis così si esprime[414] sulle società di rating:
«Le agenzie di rating stanno trattando l’Italia in una maniera scandalosa. Secondo Standard & Poor’s noi abbiamo un rating BBB- ed è di poco più alto per le altre due agenzie maggiori. Ma soprattutto la valutazione di S&P è senza fondamento perché ci è stata affibbiata nel momento di culmine della crisi dei debiti sovrani. A quell’epoca la Bce non agiva come la Fed o la Banca d’Inghilterra a difesa dei debiti dell’Eurozona e ancora non applicava il Quantitative Easing. Da quando la Bce ha avviato la sua politica di acquisto dei titoli del debito pubblico sono venute meno le condizioni per avere quel BBB-. Ci dicono: l’Italia cresce poco… Ma se nel 2012 il nostro Pil era in caduta libera, oggi è positivo e nel 2016 crescerà appena tre decimali sotto a quello tedesco. Allora dove è il problema?»
In questa guerra in atto tra l’infima minoranza di ricchissimi (ben rappresentati e guidati dalla «cupola» delle nove più grandi banche, copyright il New York Times, via Eugenio Scalfari[415]) e tutti gli altri, le agenzie di rating svolgono il ruolo – se necessario – di loro utili idioti ben retribuiti.
Come ho già scritto, Mario Draghi, sebbene lo avesse indicato come rilevante da presidente del Financial stability board, non se ne è più interessato una volta diventato presidente della BCE.
Neppure la Commissione Europea ha fatto molto, dopo che, nel 2013, su iniziativa soprattutto di Leonardo Domenici, relatore per il Parlamento UE del regolamento sulle agenzie di rating,[416] ha emanato una serie di modifiche al regolamento del 2009, in particolare per quanto riguarda la valutazione dei debiti sovrani, che è stato solo un primo passo.[417][418] Si è anche parlato più volte di creare un’agenzia di rating europea, ma la sua costituzione prima è stata rimandata al 2016, poi è stata ritenuta troppo costosa. E si è deciso di affidare la vigilanza sulle società di rating all’Autorità Europea degli Strumenti finanziari e dei Mercati (ESMA)[419][420] e di potenziare il controllo.[421]
Non è la prima volta che Standard & Poor’s o qualche altra società di rating ci declassa perché non ci affrettiamo a varare le cosiddette riforme strutturali, sorvolando sull’obiezione che esse non possono che produrre i loro effetti nel lungo termine; poi, quando le variamo, ci declassa perché le riforme strutturali produrranno i loro effetti soltanto nel lungo periodo. Logica stortignaccola davvero sospetta. Rispetto al 2011,[422][423] in cui (i) i fondamentali erano peggiori; (ii) si stava rischiando il default; (iii) non erano state fatte TUTTE le riforme strutturali (che S&P’s chiedeva pena il declassamento, ma man mano che le abbiamo fatte, anziché rivalutare il rating, ci ha declassato!); e (iv) la BCE non solo non era una banca centrale amica ma remava contro, siamo scesi di ben quattro posizioni. Il professor Fortis ha ragione, è uno scandalo! Peraltro, negli ultimi 30 anni, S&P’s non ha mai promosso l’Italia.[424]
Esse, inoltre, includono nei loro giudizi di rating anche le vicende politiche, che è un bell’handicap per un Paese come l’Italia, sia per le fibrillazioni continue della politica, sia per l’isteria collettiva che ne ingigantisce l’eco a livello internazionale, sia per la scarsa autostima del popolo italiano, che lo rende incline a sciorinare nella discussione pubblica e ingigantire autolesionisticamente i propri difetti e mettere la sordina ai propri pregi. Scarsa autostima a cui fa spesso da pendant lo scarso rispetto da parte di soggetti nazionali ed esteri. Per restare al tema, ma gli esempi in altri ambiti sono millanta, Moody’s, in caso di vittoria del NO al referendum costituzionale del 2016, arrivò a minacciare un ulteriore declassamento del debito pubblico italiano.[425] Lo stesso, anzi molto peggio, era avvenuto durante il Governo Berlusconi, quando sia Standard & Poor’s (il 20 settembre 2011)[106] che Moody’s (il 4 ottobre 2011)[107] tagliarono il rating del debito pubblico italiano per la fragilità del governo, decisioni del tutto slegate da ciò che aveva deciso il governo stesso, che aveva appena varato un consolidamento fiscale enorme (si veda il capitolo 1). Come dicevo precedentemente, il Regolamento (UE) n. 462 del 2013 ha modificato il Regolamento (UE) n. 1060 del 2009, emanando regole più rigorose alle quali le società di rating debbono attenersi, allo scopo di ridurre il peso eccessivo del rating. [417][418]
Sentenza Tribunale di Trani. A causa dei loro comportamenti anomali, le società di rating sono finite sotto i riflettori sia della Magistratura italiana che della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche. Si leggano l’interessante e istruttiva sentenza n. 837/2017 del Tribunale di Trani[426] e la relazione della Commissione d’inchiesta sulle banche.[14] Che hanno aperto uno squarcio sulla scarsa qualità del personale che vi lavora e dei loro giudizi, oltre che sulle cattive pratiche e la malafede dei vertici aziendali. Per la verità, questo è stato opera meritoria di una delle relazioni di minoranza della Commissione (Capitolo 4 – Crisi del debito sovrano ed anno 2011: ricostruzione dei «fatti» nell’istruttoria della Commissione, pag. 24[14]), mentre quella di maggioranza non ne ha fatto alcun cenno.
Un articolo dell’ANSA[426] dà fedelmente conto della sentenza (le frasi tra virgolette sono tratte dalla stessa sentenza, pag. 258):
«Il processo per manipolazione del mercato nei confronti di analisti e manager di S&P sul declassamento di due gradini dell’Italia (da A a BBB+) del 2012, conclusosi il 30 marzo scorso con l’assoluzione di tutti gli imputati, “ha fatto emergere” gli “intrecci tra azionisti, manager, analisti, dirigenti del Tesoro, banche di affari e agenzie di rating”, ma non ha “consentito di delinearne in maniera definitiva i confini proprio per la ‘reticenza’ manifestata da alcuni testi”.»
Va evidenziata la testimonianza della dottoressa Maria Cannata, responsabile del debito pubblico italiano, relativamente alle decisioni di S&P’s dal maggio 2011 al gennaio 2012, non coerenti, a suo dire, con la situazione economica e politica esistente. Le decisioni «incriminate» riguardano: (i) il taglio dell’outlook (prospettiva, previsione) da stabile a negativo del maggio 2011, a dire di S&P’s, «conseguenza diretta della precedente azione di rating del novembre 2010, pur dando atto degli effetti positivi della recente riforma delle pensioni [Sacconi, 2010], a causa della debolezza delle prospettive di crescita e dell’instabilità politica che rendeva incerta l’attuazione delle riforme strutturali (pag. 162 della sentenza); (ii) il commento negativo sulla prima Manovra estiva [DL 98 del 6.07.2011, di 82 mld cumulati] diffuso prima che il testo definitivo della Manovra venisse reso pubblico (pag. 190); (iii) il declassamento da A+ ad A del settembre 2011, fondato essenzialmente sullo stallo politico, che poi era stato superato dalla sostituzione del Governo Berlusconi col Governo Monti (pag. 221); e (iv) il declassamento di due gradini («notch») dell’Italia nel gennaio 2012 da A a BBB+, fondato essenzialmente sul fattore «estero» (quota di debito posseduto da non residenti) e su ventilate difficoltà politiche che rendevano difficile la realizzazione delle riforme strutturali per sostenere la crescita. Declassamento doppio del tutto immotivato, ancor più di quello del 2011, dopo l’ulteriore aggiustamento dei conti pubblici, imposto dall’UE, ad opera del Governo Monti (si veda il capitolo 1).
La dottoressa Cannata ha ventilato tra i moventi sia un sistematico «pregiudizio negativo molto forte» (pag. 171) e una «ipercriticità» nei confronti dell’Italia («per l’Italia vedeva il bicchiere sempre mezzo vuoto» e, «quando il problema rilevato a lungo negativamente aveva avuto una soluzione, passava ad enfatizzare un altro elemento negativo»); sia (con cauta reticenza in aula, in contrasto con le sue affermazioni molto critiche e nette da lei rese, nella fase delle indagini, al PM, che ha dovuto quasi costringerla leggendo quanto da lei dichiarato a verbale) una sorta di vendetta di S&P’s, per avere il Governo italiano risolto il contratto di consulenza che lo legava a tale società, per stipularne un altro analogo con la sua concorrente Fitch, che aveva fatto la migliore offerta.
Degne di nota sono anche le reazioni deboli di Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro (pag. 161), e di Giulio Tremonti, ministro dell’Economia e delle Finanze (da pag. 163), all’atto delle decisioni di S&P’s; e le testimonianze manifestamente reticenti rese dal teste italiano Renato Panichi (pag. 257), dipendente di S&P’s, che, con un ritardo difficilmente riscontrabile nei film americani, viene ammonito dal presidente del Collegio (donna, come il giudice a latere) per il rischio di incriminazione per falsa testimonianza; e dai professori italiani, consulenti della difesa, Andrea Resti e, segnatamente, Luigi Zingales, al quale, in evidente difficoltà, deve andare in soccorso il difensore di S&P, anch’egli autore di ripetuti interventi manifestamente ostruzionistici (p. 285).
Ma, alla fine, nonostante la «conferma» del «sospetto di sicuro pregiudizio» e di «dolo» nella diffusione di un comunicato stampa di S&P’s contenente un dato relativo al debito estero netto delle banche italiane accertato come falso dal Tribunale, i quattro imputati di Standard&Poor’s sono stati assolti, ma – come si sarebbe detto una volta – per insufficienza di prove, perché il dolo (cioè l’intenzionalità di cagionare il danno) non è stato provato, anche per la reticenza dei testimoni. L’assoluzione ha ricevuto, al solito, gli osanna degli analisti neo-liberisti e dei giornali di destra (e non solo) italiani, di fatto antitaliani in servizio permanente effettivo.
Conclusione. In definitiva, se si approfondisce la materia, si vede che le c.d. «agenzie» non sono Enti pubblici, ma società private di consulenza finanziaria, che esprimono (per loro ammissione) semplici pareri, ma che hanno un pesante impatto, e lo fanno secondo criteri discrezionali quali-quantitativi che in passato si rifiutavano di esplicitare e che variano tra le diverse società di rating. Insomma, pare ci sia una forte componente politica e discrezionale, inficiata da conflitti di interesse (commistione tra controllati e controllanti), come è stato acclarato per i loro giudizi sulla Lehman Brothers,[427] che ha comportato severe sanzioni pecuniarie a loro carico.[428] La confusione è alimentata da Autorità pubbliche che nelle norme che regolano gli investimenti di certi fondi obbligano a investire o disinvestire in base ai rating espressi da tali società.[429]
Fortunatamente, dopo le cattive performance sui titoli subprime, il giudizio delle società di rating è ormai diventato almeno parzialmente inaffidabile e non viene più ascoltato come un oracolo neppure dagli investitori. Tuttavia, il rating dell’Italia, condizionato sia dal livello elevato del debito pubblico che dal livello basso della crescita, oltre a comportare tassi d’interesse elevati che autoalimentano il debito pubblico, è ormai appena due gradini sopra il livello spazzatura, relegandola in una condizione precaria: il livello spazzatura le precluderebbe, ad esempio, di beneficiare del QE. La spada di Damocle del downgrading (declassamento) indica di agire su una o entrambe le variabili negative.
Grazie,grazie,grazie per aver fatto questo excursus e messo a posto con dati incontestabili, quella sorte di accanimento cinico che da tempo le agenzie di rating riservano all’Italia. Questo, però, è il capitalismo finanziario. Bellezza! Si prende una nazione forte (Italia) si batte il tasto sui parametri di debolezza, che tutte le nazioni hanno (il nostro debito e l’instabilità politica), si tiene sotto pressione così da sfruttarne, senza rischi, alti tassi d’interesse e specularci tranquillamente sopra facendo affari. Bisognerebbe, a nostra volta, battere il tasto sulla natura privatistica di queste agenzie e dei loro enormi errori di valutazione che hanno portato al crac finanziario americano che ha coinvolto tutto il mondo. (Vedi Lehman Brothers e altri). Però non dimentichiamo che in Italia, c’è corruzione e c’è l’evasione fiscale più vergognosa d’Europa. Mi piacerebbe leggere una bella tabella di dati disaggregati dove vedere: in quali regioni c’è più evasione, in valore assoluto e percentuale; quali categorie evadono di più. Metterla in prima pagina e chiederne conto al governo.