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Enrico Letta, neo segretario del Pd

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“Quel Fate presto riguardava l’Italia, ma parlava all’Europa, quando le leadership europee, soprattutto quelle tedesche, non capirono la crisi del debito sovrano greco e dei contagi successivi facendo l’errore clamoroso di imporre in casa loro e in Europa una linea assurda di austerity in presenza di una crisi evidente di economia reale. L’intervento risolutore di Draghi, fondato sulla credibilità della persona, che ha costretto i mercati a prendere le misure e sulla capacità politica di scegliere il momento giusto per fare la cosa giusta”

SONO giorni duri, siamo usciti dal pozzo in cui il rischio del default Italia ci aveva fatto sprofondare, ma siamo ancora a metà del guado con le banche e il risparmio degli italiani di nuovo messi a dura prova e dove la politica, nel bene e nel male, conta sempre di più perché emerge con sempre maggior chiarezza un filo europeo che si sovrappone e si intreccia con quello italiano e intorno al quale si dipana una competizione sempre più dura tra “sistemi paese”, al punto che ci viene da dire che è quasi un miracolo che l’Italia stia ancora in piedi. Enrico Letta è capace di sorprendere perché ciò che questo lavoro mi sta permettendo di capire fino in fondo, con donne e uomini in carne ossa, sofferenze e soddisfazioni della Grande crisi italiana, attraverso una trama di fatti conosciuti e di fatti nuovi, a lui è chiarissimo e colloca l’Italia direttamente, quasi sovrapponendola, alla crisi europea e parte dalle prime pagine di questo lungo racconto.

“Vorrei dirle una cosa: quel ‘Fate presto’ è riferito all’Italia ma vale uguale per l’Europa, ha effetto sull’Italia ma ha effetto anche sull’Europa perché coglie il punto massimo della crisi che si sviluppa a ondate, in quattro grandi crisi, che sono concatenate tra di loro in una sequenza temporale. La prima crisi, solo finanziaria, va dal 2007 al 2009/2010; la seconda è la crisi dell’economia reale (2011); la terza (2012) è la crisi sociale; infine la quarta, che è la più lunga, è la crisi politica che va dal 2013 al 2015”.  “Vorrei essere chiaro, la prima crisi, quella finanziaria, è tutta privata, riguarda Lehman, BnpParibas, Deutsche Bank, riguarda l’America, l’Inghilterra, la Francia, la Germania, ha impatto quasi zero sull’Italia perché le nostre banche per fortuna non hanno fatto quelle porcherie, è ovvio che questa ondata di crisi finanziaria prosciuga le capacità di capitalizzazione delle imprese italiane ma abbiamo un tale materasso di welfare state che i contraccolpi vengono se non del tutto assorbiti, fortemente attutiti”. 

Quando è che l’Italia entra in pericolosissima fibrillazione? “Avviene con la crisi del novembre del 2011 e coincide con il famoso ‘Fate presto’ che riguardava l’Italia ma parlava all’Europa perché tocca l’economia reale, ha in incubazione la crisi sociale successiva e crea le condizioni per una lunga stagione di crisi politica a causa di troppi sordi che si ostinano a non voler sentire. Parlava all’Europa, quella crisi del debito sovrano greco e dei contagi successivi, ma non fu ascoltata e capita. Quei comportamenti di allora consentono di capire oggi l’irresponsabilità delle leadership europee, soprattutto di quelle tedesche che hanno fatto un errore clamoroso imponendo in casa loro e in Europa una linea assurda di austerity in presenza di una crisi evidente di economia reale. Di questa impostazione assurda ne hanno risentito i due trattati del 2012 su stabilità e governance e sul Fondo salva-stati, il piano omt, poi neppure utilizzato grazie all’intervento risolutore di Draghi, fondato sulla credibilità della persona, che ha costretto i mercati a prendere le misure e sulla capacità politica di scegliere il momento giusto per fare la cosa giusta.”  

E come in tutti i gialli che si rispettano, con una trama che affonda nella realtà, scopriamo il francese buono. Si chiama Hollande e ce lo segnala Enrico Letta, che dice: “Non segue  la Germania, si schiera con l’Italia e, grazie alla mano pesante di Draghi, stoppa la volontà tedesca di buttare fuori la Grecia”  L’analisi di Letta e l’inquadramento dei fatti è convincente, ha una sua logica, soprattutto mette a nudo quella miopia tedesca e francese di cui abbiamo più volte parlato e ci fa capire con chiarezza quanto hanno pesato il dato sociale e il dato politico entrambi disinvoltamente sottovalutati, in modo più religioso da parte dei tedeschi e, a avviso di chi scrive, in modo più interessato da parte dei francesi.

Eppure Enrico Letta riesce a trovare, nella tempesta perfetta dell’euro e nella lunga notte italiana, come in tutti i gialli che si rispettino (questo è vero) il francese buono (Hollande) da contrapporre al francese cattivo che, come avrete tutti capito, ha un nome e un cognome: Nicolas Sarkozy. Sentiamolo: “C’è una vicenda che è stata sottovalutata un po’ da tutti e che riguarda la leadership francese, – forse – anche perché il soggetto interessato ha goduto di cattiva stampa. Nel passaggio da Sarkozy a Hollande in Italia non c’è Berlusconi ma c’è Monti e succede una cosa che non avveniva da tanto tempo: Hollande rimette l’Italia nell’asse francotedesco. Lui coinvolge sempre Monti e ne sostiene le posizioni nei vertici internazionali; faccio presente che in quel momento il consigliere economico di Hollande è Macron, che svolge funzioni di sherpa. Il goal decisivo è quello di stoppare la volontà tedesca nel 2014/2015 di buttare fuori la Grecia dall’Europa. L’Italia ha dato una mano, la Bce e Draghi personalmente hanno fatto sentire il loro peso, però c’è un dato politico che a mio avviso è passato sotto silenzio e che invece è stato molto importante. Hollande non segue la Germania, come non la seguì quando Monti minacciò il veto; forse è la prima volta che la Francia si schiera così apertamente con l’Italia. Al punto che la Merkel, con il suo consueto pragmatismo, fa la sintesi sempre nell’interesse dell’Europa.”

Quello che Letta non dice – e lo faccio io – è che la cancelliera tedesca deve tenere a bada i due mastini di casa: lo storico ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, che è un osso duro anche per lei, e il governatore della Bundesbank Jens Weidmann, che per lei è meno impegnativo, visto che è una sua creatura politica, ma ugualmente pesa perché influenza l’opinione pubblica. Il Cavaliere bianco, come sempre, si farà sentire e le darà una mano a tenere a bada mugugni e mal di pancia del Bundestag e della società tedesca. “Non sono stupido” risponde stizzito Schäuble a Draghi durante una riunione notturna a Bruxelles, nella quale il presidente della Banca centrale europea ribadisce che l’uscita della Grecia dall’euro sarebbe una catastrofe per tutti, provocando una reazione nervosa del ministro delle finanze tedesche, stretto tra la ragione del suo interesse politico e l’evidenza lineare del ragionamento di Draghi che non può sfuggire a un uomo esperto e competente come lui. Il presidente dello European Stability Mechanism, Jeroen Dijsselbloem, presente al confronto, decide di interrompere la seduta perché il clima si sta surriscaldando e, interpellato, tende a ridimensionare e parla di “uno scambio di vedute” (…)

***

(…) Enrico Letta si è dimesso da parlamentare e dirige la scuola di affari internazionali di Sciences Po a Parigi e ha tenuto a battesimo l’Académie Notre Europe, una scuola politica per formare una nuova classe dirigente di cittadini europeisti convinti, itinerante tra Roma, Berlino e Parigi. Ha ben presente quei giorni e vuole dire ancora qualcosa su un ragionamento che ha lasciato a metà, qualcosa che lo ha riguardato direttamente come presidente del consiglio italiano: “La politica monetaria espansiva di Draghi ha dato un orizzonte molto largo all’Italia e ha posto le basi economiche e culturali perché l’ostinazione di austerità europea nel 2014 finisse e, cosa ancora più importante, la Commissione europea segue nel solco tracciato a partire dalla stessa data. Voglio puntualizzare che la tesi generale alla quale mi sono sottratto poco prima di essere scalzato dalla responsabilità di presidente del consiglio era un sentimento diffuso che la crisi era finita e che bisognava riprendere a spendere e spandere. La mia convinzione è che un paese con una disoccupazione giovanile al 40% non è fuori dalla crisi. Per me in quei momenti l’Italia aveva ancora bisogno di molte cure, non era fuori dal pronto soccorso e, in più, mi confrontavo con strutture europee che per tutto il 2013 e l’inizio del 2014 avevano atteggiamenti e comportamenti decisori molto rigidi in termini di rigore e di austerità. L’unico spazio stretto nel quale cercavo di muovermi era esclusivamente politico, cioè la paura di Merkel, Hollande e Barroso che l’Italia potesse finire nelle mani dei Cinque stelle e, in genere, di un partito antieuro. Nelle trentasei ore successive alla fiducia mi recai in visita a Bruxelles, Berlino, Parigi, Strasburgo. Tutti i capi di stato e di governo e le massime autorità europee che ho incontrato mi ripetevano: ‘Non corriamo rischi, vero? Non è possibile che in Italia vinca un partito antieuro?’ Per questo credo che l’Europa abbia compiuto in quegli anni lo stesso errore che ha compiuto l’Italia entrando nell’euro: in entrambi i casi si abbatté uno spread che partiva da 600-700 punti, noi passammo da tassi di interesse altissimi a zero e gli italiani si comprarono le case perché i mutui non costavano nulla, ma continuammo a fare spesa pubblica improduttiva. L’Europa ha rivelato un deficit clamoroso di classe dirigente perché ha aggravato la situazione di italiani e di greci con un accanimento ottuso e sbagliato.”

Sono totalmente d’accordo, e mi permetto di aggiungere una piccola chiosa: c’è voluta la supplenza politica di Draghi per togliere l’Europa dal pantano, ma non è bastata, perché il solco aperto con il quantitative easing, la molla allentata dei rischi di default e, soprattutto, le grandi iniezioni di liquidità a tassi bassissimi, non hanno determinato quel cambiamento obbligato di teste e di cultura della classe dirigente europea, che avrebbe dovuto affiancare e moltiplicare gli effetti della leva monetaria intensificando investimenti pubblici e privati; invece, prima si è persa in vincoli di bilancio e asimmetrie interessate in materia di vigilanza, poi ha semplicemente allentato la morsa dell’austerità, ma non ha mai dimostrato di capire fino in fondo che bisogna mettere l’economia reale, la competitività e le disuguaglianze al centro della politica economica.

Le riflessioni di Enrico Letta mi fanno tornare alla mente una lunga telefonata con Paolo Pombeni, mio amico da sempre, italiano di confine e professore emerito di storia dei sistemi politici all’università di Bologna. Pombeni mi chiama come segretario della giuria del premio De Gasperi, di cui facevo parte, impiega meno di un secondo per convincermi che la persona giusta è Draghi come statista oltre che come banchiere centrale e mi invita a fare da tramite con il presidente della Bce per ottenere una preventiva informale accettazione. La parola “statista” è quella che mi rimane dentro di quel colloquio informale e devo dire che il giorno della premiazione a Trento e nei mesi successivi ho sempre guardato a Draghi come architetto politico della nuova Europa, di un suo assetto federale, con almeno una difesa in comune e un unico ministro dell’economia, acquisendo di giorno in giorno la consapevolezza che questo accresce, non alleggerisce, il compito di chi ha la responsabilità del governo nazionale, gli dà un orizzonte largo e un itinerario importante ma impone leadership, carisma e scelte coraggiose (…).

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(…) C’è una sola cosa che tutti desiderano e tutti, compresi Europa e Bce, ci chiedono con insistenza: ridurre la pressione fiscale e contributiva su imprese e lavoratori per recuperare produttività e ritrovare la strada della crescita. Ma la legge di stabilità scappa dalle mani di Letta e finisce in quelle concertative-assistenziali di Fassina, che riesce a distribuire miniprebende a tutti e a non tagliare nemmeno di un centesimo tassi e oneri previdenziali. Sparisce l’impegno che il presidente del consiglio in persona aveva preso con il nostro giornale (Il Sole 24 Ore che all’epoca dirigevo), quello di destinare tutto ciò che si ottiene da spending review e lotta all’evasione fiscale alla riduzione del cuneo fiscale e contributivo: le mani sapienti di Fassina lo metteranno nelle condizioni di non poterlo rispettare. Per questo scrivo che un presidente del consiglio che non mantiene la parola deve lasciare. Fassina, dopo aver gestito nel modo peggiore la sua legge di stabilità, fa anche pressione sul presidente del consiglio perché compia il gesto di farsi da parte, cosa che il giovane Letta si rifiuta di fare.

Ci penserà Renzi a sfiduciarlo e lo farà con un voto della direzione nazionale del Pd che ha l’89% dei consensi. Chi lo conosce bene dice che sulla scelta di Renzi di varcare il Rubicone ha un certo effetto una comunicazione dell’Istat che segnala, dopo nove trimestri negativi, il primo +0,1% del pil e tanto basta al neosegretario del Pd per convincersi che la ripresa è alle porte. Questo, e l’imminente semestre italiano di presidenza dell’Unione europea, sono ai suoi occhi due validissimi motivi per togliere la ribalta a Letta e prendersi direttamente il timone della nave italiana dalla tolda di comando di Palazzo Chigi. 

Una mano, nemmeno troppo consapevolmente, gliela dà il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. Intervistato da Giovanni Minoli a Mix 24– una costola radiofonica dell’oscar mondiale dell’informazione tv vinto in Italia con La storia siamo noi – il capo degli industriali usa un linguaggio che non si addice a chi ha la responsabilità di rappresentare il capitale privato del paese e arriva a intimare a Enrico Letta: “Venga in direttivo di Confindustria con la bisaccia piena, altrimenti sarebbe un grosso problema, e a quel punto ci appelleremo al presidente della repubblica Giorgio Napolitano, che prenderà le decisioni giuste.”

Il merito della rivendicazione ha un suo fondamento, ma i toni e le modalità non sono appropriati. Squinzi consegue il risultato paradossale di spianare la strada verso Palazzo Chigi proprio alla persona, l’ex sindaco di Firenze, sulla quale nutre dubbi e perplessità. Rimarrà nella memoria di tutti la cerimonia dello scambio della campanella, con Letta che rifiuta lo sguardo di Renzi e si gira con forza dall’altra parte. Ho sempre stimato l’allievo di Andreatta e di Prodi, la serietà dei suoi comportamenti, e probabilmente riscriverei il fondo con cui gli chiedevo di farsi da parte perché l’azione di governo smentiva platealmente un impegno del presidente con il nostro giornale e, soprattutto, non dava attuazione a una cosa giusta nella quale lui stesso non poteva non credere ciecamente: impegnare tutte le risorse emerse dalla spending review, e quelle che sarebbero emerse in futuro, per la riduzione del cuneo fiscale e contributivo, una scelta a favore di imprenditori e lavoratori che guarda avanti, migliora la produttività, sostiene i consumi.

Ricordo una chiamata di Letta: “Avresti dovuto almeno dirmelo, avrei gradito di essere avvisato.” No, questo no, ma pensando con il senno di poi a tutto quello che si è mosso in quei giorni intorno a lui, e conoscendo la sua rettitudine, sono un po’ pentito; non mi è mai piaciuto infierire nei confronti di chi è in difficoltà e continuo a pensare che possa essere una risorsa per il futuro di questo Paese. 


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