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Non vorremmo apparire ripetitivi, ma c’è un intreccio distorto di poteri legislativi concorrenti, conflitti di interessi territoriali, incapacità e vizi della burocrazia elevati al cubo, che fa del regionalismo all’italiana il punto più elevato della decadenza competitiva del Paese. Perché è il motore di un sistema di prelievi indebiti e di veti paralizzanti che ha acuito il divario tra Nord e Sud, ha moltiplicato l’assistenzialismo nelle terre dell’intrapresa privata, ha di fatto impedito di concepire e realizzare grandi infrastrutture di sviluppo nei territori meridionali e posto così le basi del più clamoroso esodo di cervelli mai conosciuto nel mondo occidentale.
Siamo al punto finale di una storia pluridecennale tutta anticipata negli atti parlamentari di molti anni fa che registrano i discorsi di Ugo La Malfa. Un urlo che esprimeva razionalità e visione, ma che rimase pressoché inascoltato: queste Regioni moltiplicheranno le burocrazie e le clientele, aumenteranno i capi di divisione e i capi di sezione e, di conseguenza, il Paese non potrà più fare neppure una grande opera, distribuirà solo assistenzialismo. Per bloccare l’Italia e condannarla al declino mi sembra la scelta più azzeccata.
Ricordo un incontro con Antonio Maccanico, uomo delle istituzioni di valore di scuola repubblicana, di ritorno dagli Stati Uniti dopo un periodo di studi. Mi dice: dobbiamo combattere la battaglia per l’abolizione del valore legale del titolo di studio, l’esperienza americana mi ha insegnato questo. E aggiunge: ne ho parlato con La Malfa che ha spento subito i miei entusiasmi. Chiedo: come mai? Che cosa ha detto? Ecco la risposta che cito a mente: “caro Tonino non ti preoccupare, le quattro o cinque leggi che hanno rovinato l’Italia le abbiamo già fatte. La prima sono le Regioni”. Diciamo che la veduta corta che è la caratteristica dominante della classe dirigente di questo Paese degli ultimi trent’anni non apparteneva a La Malfa, ma purtroppo persiste ancora e rende inutili le sue prediche profetiche e di tutti quelli che hanno il coraggio di non chiudere gli occhi davanti al misfatto di una frammentazione decisionale che condanna al declino l’Italia. Ha incrementato di anno in anno pratiche nefaste di saccheggio del bilancio pubblico da parte delle Regioni del Nord a spese di quelle del Sud, che hanno fatto il male loro e hanno portato la popolazione meridionale al picco del suo minimo storico di reddito pro capite. Un disastro senza pari che va denunciato senza riguardi per nessuno.
A Malpensa dopo decenni di finanziamenti pubblici mai visti non sono capaci di fare gli stessi tamponi negli stessi tempi che fanno a Fiumicino, ma il corridoio Adriatico dell’alta capacità ferroviaria non si fa perché litigano Molise e Puglia per la storia di un volatile che non è più lì e di un avvocato romano esperto di tutto meno che di ornitologia che lo mette prima di ogni altra ragione e blocca i lavori. La questione regionale è una questione nazionale e come tale va affrontata. Siamo seri: ma in queste condizioni davvero credete che possiamo aprire il cantiere della rinascita italiana? Senza fare i conti con l’operazione verità sulle mille distorsioni della spesa sociale e infrastrutturale sarà mai possibile ripartire? Nord e Sud devono tornare a essere un Paese, non le fazioni territoriali di due squadre contrapposte. Devono farlo in fretta e avere il coraggio di dirlo a viso aperto in Europa. Il vento del Nord soffi forte perché l’Italia ponga al centro del Piano europeo la riunificazione infrastrutturale materiale e immateriale delle due Italie, fiscalità di vantaggio e delocalizzazioni industriali agevolate al Sud. Questa oggi è la priorità. Per conseguire l’obiettivo le Regioni che hanno avuto troppo devono cominciare a restituire, ma tutte le Regioni da Nord a Sud devono fare un passo indietro.
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Osservazione ovvia, quella di Ugo La Malfa. Avvenne la stessa cosa nella ricca azienda del Gruppo IRI in cui lavoravo come controller divisionale, nel periodo di tangentopoli. Il nuovo AD, dopo avere costretto alle dimissioni praticamente tutta la vecchia guardia dirigenziale, si ostinò a replicare a livello regionale la struttura delle due divisioni (Centro-Nord e Centro-Sud) in cui era articolata l’azienda, oltre alla sede centrale. Al responsabile dell’Ufficio Lavori regionale, furono affiancati un responsabile amministrativo, un responsabile acquisti, ecc. La conseguenza quasi immediata fu l’esplosione dei cosiddetti costi di struttura, che si mangiarono una discreta fetta del risultato di gestione divisionale e del risultato operativo aziendale.
In Italia, tra la burocrazia centrale e quella decentrata è una bella gara di inefficienza, aggravata dall’assetto parcellizzato e ridondante. In ogni caso, fermo restando che, a seguito della riforma del Titolo V della Cost., sia stata inevitabile una crescita della spesa regionale correlata all’aumento delle competenze delle Regioni, è indispensabile: nel medio termine, una revisione di tale riforma; e, nel breve, almeno l’accentramento della gestione delle risorse destinate agli investimenti, attraverso la creazione di una struttura ad hoc, che, da una parte, faccia leva sulle competenze migliori attualmente presenti nella PA adeguatamente potenziate e, dall’altra, operi secondo una strategia perequativa dei forti divari Nord-Sud.