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Le catene del valore globale hanno bisogno di una dimensione nazionale con un circuito integrato Nord-Sud che alimenta consumi interni e custodisce le posizioni di mercato italiane a livello internazionale, non di “fenomeni” in casa che sono trattati fuori casa come chef più o meno stellati nelle cucine tedesche o francesi in balia dei loro capricci
La stabilità del fenomeno di estrazione strutturale di risorse pubbliche da un’area a favore dell’altra dura da almeno venti anni e misura la dimensione quantitativa e qualitativa del problema competitivo italiano. Questo macro fenomeno certificato dai conti pubblici territoriali di anno in anno è il frutto avvelenato di un federalismo fiscale all’italiana che ha trasferito la governance della spesa sociale e in conto capitale nelle mani dei governatori tosco-emiliani della cosiddetta Sinistra Padronale e dei governatori lombardo-veneti a trazione leghista in un luogo di consultazione (Conferenza Stato-Regioni) trasformato in un luogo decisionale dove i diritti di cittadinanza di una parte del Paese e le ragioni equilibrate di sviluppo dell’economia nazionale sono puntualmente calpestati.
Un regime provvisorio si è perpetuato fino al punto di sottrarre ogni anno decine di miliardi pubblici da destinare a scuola, sanità, infrastrutture materiali e immateriali di sviluppo nelle regioni meridionali per alimentare un flusso di trasferimenti impropri alle Regioni del Nord. Ha determinato una crescita dell’assistenzialismo e della criminalità organizzata in territori sempre più diffusi del Nord e un aggravamento dello squilibrio tra aree metropolitane e aree interne dello stesso Nord. Questo “capolavoro” di miope egoismo ha fatto in modo che il Nord va male e il Sud malissimo tanto che sono a oggi gli unici due territori europei a non avere raggiunto i livelli pre-crisi del 2007/2008 prima ancora dell’arrivo del Covid che ha portato la Grande Depressione mondiale e non potrà non accentuare le pericolosissime tendenze italiane in atto. Per non parlare della frammentazione decisionale che il ruolo improprio esercitato dalla Conferenza Stato-Regioni determina in tutte le attività e colpisce al cuore la credibilità delle nostre istituzioni e la competitività della nostra economia. Questa è la realtà e questa realtà in buona fede o in mala fede – la situazione non cambia – viene troppo spesso ignorata nelle analisi che riguardano il futuro del Paese. A volte ridimensionata con leggerezza nelle sue misure senza mai fornirne controprove documentali. A volte ancora liquidata come una sterile contrapposizione tra guelfi e ghibellini fuori dalla storia. Purtroppo, non è così. Il Paese ha due problemi distinti ma connessi, che precedono ogni altro. Il primo si chiama Spesa Storica e ruolo abnormemente distorto delle Regioni del Nord. Il secondo riguarda un progetto di sviluppo che ignora il secondo motore (il Mezzogiorno) e non vuole prendere atto della crisi del primo motore (appunto, il Nord).
Sul primo problema dei trasferimenti impropri siamo stufi anche solo di parlarne e non abbiamo nessuna voglia di fare polemiche. Si prenda la spesa storica media nazionale di lungo periodo e lo Stato – non le Regioni – tolga a chi ha di più e dia a chi ha di meno attuando finalmente la parificazione dei diritti di cittadinanza sancita dalla Costituzione in materia di scuola, sanità, mobilità, infrastrutture di sviluppo. Per evitare conflitti non gestibili con i cittadini diventati ricchi con i soldi degli altri si usino i fondi del Mes o del Recovery Fund per un periodo di transizione di tre-cinque anni e si chiarisca in Europa che questo tipo di intervento è legato all’attuazione del progetto decennale di sviluppo del Paese.
Che non può non riguardare proprio il Mezzogiorno perché solo così si affronta finalmente il secondo problema. Si affianchi dunque alla fiscalità di vantaggio un piano integrato di opere – Alta Velocità ferroviaria, porti e retroporti, Ponte sullo Stretto, rete unica in fibra – necessario per consentire all’Italia di avere il suo secondo motore e restituire al primo il 40% della sua, nuova crescita sotto forma di consumi e altro. Proprio ciò che il Nord ha perso negli ultimi venti anni avendo fatto azzerare la spesa sociale e produttiva nel Mezzogiorno.
In questo modo si potrà avere il consolidamento sociale del Paese e una crescita dell’1,5/2% di lungo periodo che da tempo non vediamo più. L’idea dei “fenomeni” del Nord che ripartono e mettono le cose a posto non sta né in cielo né in terra. Primo: perché di “fenomeni” in circolazione ce ne sono pochi, è sparita la grande impresa privata. Secondo: perché con un terzo della popolazione che ha un reddito pro capite pari alla metà degli altri due terzi l’economia non potrà mai crescere. Terzo: perché le catene del valore globale hanno bisogno di una dimensione nazionale con un circuito integrato Nord-Sud che alimenta maggiori consumi interni e custodisce le posizioni di mercato italiane a livello internazionale, non di “fenomeni” in casa che sono trattati fuori casa come chef più o meno stellati delle grandi cucine tedesche o francesi in balia dei loro voleri e dei loro capricci.
Fermiamoci finché siamo in tempo e evitiamo di ripetere gli errori del passato. Sarebbe bello che a volere ciò fossero le classi dirigenti del Nord e che quelle del Sud avessero per una volta la dignità di rifiutare le solite briciole che qualcuno proverà comunque a offrire pur di farli stare zitti. Buon ferragosto a tutti.
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1. Divario Nord-Sud del reddito procapite
Sono sperequazioni e iniquità talmente evidenti, quelle Nord-Sud denunciate meritoriamente dal direttore Roberto Napolitano, che – come ne “La lettera rubata” – nessuno le vede (o le vuole vedere).
Traggo da un ampio studio della Banca d’Italia “Mezzogiorno e politiche regionali”, da me già citato in un mio precedente commento, la conferma del calo drammatico, nell’ultimo secolo, del Pil procapite meridionale rispetto a quello del Nord:
«Nel Mezzogiorno risiede un terzo della popolazione italiana; si produce solo un quarto del prodotto interno; si genera soltanto un decimo delle esportazioni italiane. Un innalzamento duraturo del tasso di crescita di tutto il Paese non può prescindere dal superamento del sottoutilizzo delle risorse al Sud.» (p. 7).
«A metà di questo decennio il PIL pro capite delle regioni meridionali non raggiungeva il 60 per cento di quello centro-settentrionale; alla metà degli anni sessanta tale ritardo era di dimensioni identiche.
La frattura territoriale nel nostro paese appare almeno altrettanto ampia, anche con riferimento ad indicatori di sviluppo più direttamente correlati alle condizioni materiali di vita delle popolazioni, come i tassi di occupazione, la diffusione della povertà, i livelli di istruzione o il funzionamento dei servizi pubblici locali. L’elevata ampiezza percepita dei trasferimenti di risorse effettuati nel corso dei decenni in favore delle aree meridionali acuisce il senso di insoddisfazione verso le attuali dimensioni del dualismo territoriale italiano» (p. 427).
«Fino alla conclusione del XIX secolo, il PIL pro capite delle regioni meridionali non scese mai al di sotto del 90 per cento di quello centro-settentrionale» (p. 427).
2. Infrastrutture strategiche: Grande Piano Pluriennale di Alloggi Pubblici di Qualità
Le famiglie in casa di proprietà non sono né il 90 né l’80% – come in generale si sostiene – ma il 72% di quelle censite dall’ISTAT/EUROSTAT ed in alcune Regioni (come la Campania) intorno al 60%. E gli alloggi pubblici popolari (cat. A4) e ultrapopolari (cat. A5) censiti dall’Agenzia delle Entrate nel 2018, spesso fatiscenti, sono appena 526.699 unità, pari all’1,5 per cento del totale di 35 milioni di immobili residenziali, contro il 10, 20, 30 per cento di altri Paesi UE (al 1° posto c’è l’Olanda col 32%, poi l’Austria col 23%, la Danimarca col 20%, la Francia col 16%); negli altri Paesi europei, infatti, vengono costruiti molti più alloggi popolari, per calmierare i prezzi degli affitti e tutelare i ceti più poveri. Il numero delle case popolari e ultrapopolari è diminuito rispetto a quindici anni fa, a seguito della loro vendita (privatizzazioni).
Il divario con gli altri Paesi UE risulta ancora più marcato in termini di spesa per l’housing sociale, con un rapporto spesa/Pil dell’Italia pari (2005 e 2009) ad un misero 0,02%, contro una media dello 0,57% UE27.
Poi ci si scandalizza della guerra tra poveri dell’occupazione abusiva delle case popolari, mentre bisognerebbe scandalizzarsi per l’estrema penuria di alloggi pubblici e sollecitare vigorosamente un corposo piano pluriennale di case popolari.
Pertanto, l’obiettivo prioritario in Italia deve essere un GRANDE PIANO PLURIENNALE DI CASE POPOLARI DI QUALITA’, sulla falsariga del piano Fanfani (all’epoca ministro del Lavoro e della Previdenza sociale), adattato alle esigenze attuali, anche in termini di consumo di suolo, e tenendo conto eventualmente della grande disponibilità di case sfitte o invendute (così si depotenzia la contrarietà della potente lobby delle banche e degli immobiliaristi, oltre che dei proprietari di casa, beneficiari senza alcun merito, da 60 anni, della legislazione urbanistica sul regime dei suoli).
Sarebbe un piano, peraltro, in raccordo con le recenti proposte del gruppo di studio di alto livello, presieduto da Romano Prodi, per conto della Commissione Europea.
La prima copertura finanziaria (parziale) che mi viene in mente è la reintroduzione della IMU-TASI sulla casa principale (4 mld), in particolare dei ricchi e dei benestanti (2,7 miliardi), resa esente per meri motivi elettoralistici e contro il dettato costituzionale (art. 53), prima da Berlusconi e poi da Renzi (scaricandola sulla fiscalità generale e perciò anche sugli affittuari a basso reddito, ad esempio introducendo la franchigia di 129€ sulla detrazione delle spese sanitarie).
Peraltro, pochissimi sanno che, secondo il MEF, il gravame medio annuo dell’IMU sulla casa principale nel 2012 (ultimo anno di applicazione) è stato pari ad appena 225€ e l’85% ha pagato meno di 400€.
Con i 4 mld, ipotizzando un costo unitario medio di 100.000€, si potrebbero costruire 40.000 alloggi pubblici di qualità all’anno.
3. Dignità dei presidenti delle Regioni del Sud
La corresponsabilità dei presidenti delle Regioni del Sud è evidente. Al tempo del IV governo Berlusconi, il ministro “leghista” Giulio Tremonti, nel mentre declamava a parole il suo filo meridionalismo affermando che aveva zie calabresi, nei fatti arrivava a suddividere i fondi in sede CIPE dando il 90% al Nord e il 10 al Sud. E Stefano Caldoro, presidente forzitaliota della Campania, per protesta si limitava ad invitare i suoi colleghi del Sud a disertare il CIPE. Ora al governo centrale non c’è più la bulimica Lega Nord, che cosa impedisce ai presidenti delle Regioni meridionali di pretendere – come suggeriva il 3.8 su questo giornale l’ex presidente della Corte Cost. Cesare Mirabelli – la perequazione nella distribuzione dei fondi non più su base storica, ma in base alla legge n. 42 del 2009 che attua un principio costituzionale? Quale maggiore forza si cerca di questo duplice e formidabile aggancio e avallo legislativo per fare il proprio dovere di amministratori votati all’equità e al benessere delle popolazioni meridionali? Che, come osserva il direttore Napoletano, forse riecheggiando il presidente Giannola della Svimez, è volano anche per lo sviluppo sinergico del Nord.