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Giuseppe Conte

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Per salvare l’Italia va cambiata subito la macchina dello Stato e abbattuto il mostro dei 165 decreti attuativi dei 13 decreti legge cosiddetti Covid-19. Il presidente Conte ne è consapevole, ma Pd e 5Stelle fanno il doppio gioco. Bisogna che le società a capitale pubblico di mercato e quelle private stiano insieme invece di farsi la guerra. Che le opposizioni sovraniste si rendano conto che la polveriera sociale brucerà anche loro quando i cittadini poveri si accorgeranno della loro irresponsabilità

Per dare soldi a chi non ce la fa e risarcire parzialmente chi ha dovuto chiudere l’attività economica, il Governo ha emesso 13 decreti leggi cosiddetti Covid 19. Tutti urgentissimi. Peccato che sono previsti 165 decreti attuativi e coinvolgono 17 ministeri. Solo al dicastero dell’Economia ne toccano 36, al momento da tutti i ministeri ne sono stati adottati il 19% del totale. A tre mesi di distanza di soldi veri se ne sono visti pochissimi, il decreto liquidità è stato comunemente ribattezzato decreto “illiquidità”, l’Italia è l’unico Paese al mondo ad avere chiamato a raccolta tutte le burocrazie assicurative, ministeriali e bancarie per realizzare il capolavoro di impegnare somme fantasmagoriche tutte in deficit e non cacciare il becco di un quattrino.

Queste mostruosità sono opera di chi guida la macchina del Tesoro – Claudio Marincola documenta tutto con il consueto rigore – e sono possibili perché chi ha la responsabilità politica dell’economia ha rinunciato a esercitarla. Queste mostruosità sono inammissibili in tempi di pace. Risultano intollerabili e condannano il Paese a uscire dal novero dei Paesi industrializzati nei giorni della Grande Depressione Mondiale. Una macchina del Tesoro che è incapace di fare bonifici sui conti correnti di chi per colpe non sue viene condannato al fallimento deve essere smontata dalla testa pezzo pezzo con estrema urgenza senza riguardi di nessun tipo.

A meno che non si voglia riconoscere che ciò che è possibile in Germania, Francia, Spagna, Portogallo e così via da noi non può avvenire. Sappiamo che il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ne ha piena consapevolezza e dagli Stati generali dell’economia è emerso con chiarezza che l’economia produttiva non ne è solo consapevole, ma chiede che si intervenga con urgenza. Si proceda a strettissimo giro perché se non si cambia questa macchina regaleremo a spagnoli e portoghesi gran parte delle risorse europee faticosamente conseguite e consegneremo nelle mani della Troika la guida di un Paese diseguale incapace di uscire delle sue miopie e da un regionalismo che è il monumento alla frammentazione dei poteri e al primato della incapacità decisionale occidentale.


C’era una volta la grande impresa privata scrive, da par suo, Patrizio Bianchi, ricordando come dalla Montedison alla Olivetti, solo per fare un paio di esempi, tutto si è liquefatto.

Cosicché le nostre speranze di potere dire qualcosa nel mondo sono affidate alle public company, tipo Eni, Enel, Snam, Terna, Leonardo e così via, che hanno ancora tramite Cdp e Tesoro lo Stato come azionista di riferimento perché qui c’è la grande innovazione italiana (vedi Tabarelli). Fa un certo effetto constatare come ogni volta che lo Stato Padrone abbia passato la mano ai Grandi Privati Italiani (Autostrade, Alitalia, Ilva, TIM) siano finiti indecorosamente sugli scogli per non dire peggio o abbiano passato la mano a uomini di affari francesi, indiani e così via senza mai perdere l’alterigia di una nobiltà tanto presuntuosa quanto decaduta.

Fabrizio Galimberti che conosce come pochi il Made in Italy ci informa che nel distretto simbolo della manifattura, Monza Brianza, la netta maggioranza delle prime dieci imprese sono filiali di multinazionali estere e aziende commerciali e che su scala lombarda il quadro peggiora ancora. Con questa crisi terribile del capitalismo italiano in termini dimensionali, competitivi, in molti casi etici, il Coronavirus non c’entra proprio niente e ci saremmo francamente aspettati che il presidente incolpevole di Confindustria, Carlo Bonomi, che ne raccoglie il testimone si presentasse agli Stati generali dell’economia con un’autocritica pubblica che è di sicuro il migliore contributo che può fornire alla ricostruzione economica del Paese a partire dal suo sistema industriale. Così non è avvenuto e questo non vuol dire affatto che molte delle sue proposte non meritino di essere condivise e prontamente attuate.


Il punto di fondo, però, è un altro. Riguarda lo sforzo serio di un presidente del Consiglio che è costretto a sgombrare il campo da accuse di collettivismo e di statalismo, quasi che fosse lui il responsabile dei disastri Autostrade, Alitalia e Ilva, ma che orgogliosamente rivendica il ruolo nel mondo delle grandi multinazionali pubbliche di mercato e vuole scolpire nella pietra con scadenze e impegni finanziari i singoli interventi del Progetto Paese e non fa che chiedere scusa (unico e solo perché Gualtieri e i sepolcri imbiancati del Pd se ne guardano bene) per gli intollerabili ritardi della macchina esecutiva dello Stato. È lo stesso Presidente Conte che va in Parlamento e fa il suo appello alla coesione, ma si ritrova davanti la più ridicola delle opposizioni sovraniste europee che addirittura lascia l’aula.

Abbiamo, a questo punto, la certezza che la Lega e, ci dispiace doverlo constatare, anche Fratelli d’Italia non abbiano la minima consapevolezza della gravità della crisi italiana e della polveriera sociale che brucerà in un unico rogo governo e opposizioni in autunno quando sarà chiaro a tutti i cittadini come siano stati condannati alla povertà dalla loro comune insopportabile irresponsabilità. La stessa che a volte emerge in alcune anime del Pd di governo e in quelle più assistenzialiste della componente pentastellata. Come è noto abbiamo chiesto noi a Conte di fare gli Stati generali dell’economia e pensavamo a una formula più ristretta nei tempi. Quello che sentiamo di dire oggi è che tiri dritto dopo la grande consultazione. Cominci con il dare al Paese la macchina amministrativa che merita e faccia arrivare al mondo della piccola impresa, del turismo e dell’artigianato la liquidità di cui hanno diritto.

Le società a capitale pubblico di mercato e il capitale privato manifatturiero devono stare insieme non farsi la guerra. Entrambe hanno bisogno di grandi investimenti pubblici da moltiplicare con quelli privati. Anche qui, però, serve una macchina nuova per spendere bene i fondi europei della coesione e non sprecare la nuova cassa garantita da titoli del bilancio europeo e legati alla ritrovata solidarietà. Siamo sempre lì.


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