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L’obiettivo di Cdp non è più Autostrade per l’Italia, ma il gradino più alto che è Atlantia, la holding dove i Benetton comandano con Edizione sopra il 30%, il flottante è del 45%, e dicono la loro il Fondo Sovrano di Singapore (GIC) con l’8%, Lazard e HSBC intorno al 5%, la Fondazione Cassa di risparmio di Torino al 4,85%. Da lassù c’è il rischio delle vertigini e di cadere di sotto perché si controllano (50% più una azione) le autostrade spagnole di Abertis e, suo tramite, 4.500 chilometri e 12 concessioni delle autostrade brasiliane, una rete anche stradale di 1.100 km in Cile, un pezzo di autostrade francesi, inglesi, colombiane, il tunnel sotto la Manica, la più grande azienda di costruzioni tedesca. Più che di Cdp, a onor del vero, questo è l’obiettivo massimo del patriottismo economico dei Patuanelli e dei Buffagni, che sono dei Cinque Stelle i più alti in grado in economia, e per una volta non ragionano da padroncini di Stato, ma da Stato imprenditore. Pensano in grande, vogliono mettere le mani sulla prima azienda al mondo nelle infrastrutture autostradali e aeroportuali. Vogliono che sia lo Stato imprenditore italiano a farlo.
Hanno avuto una piccola apertura dai Benetton, tramite Mion, e provano a non mollare la preda. Per capirci, non basta più a loro dire abbiamo preso noi il controllo di Autostrade, i Benetton non contano più niente, facciamo noi le nomine, garantiamo noi i presidi di sicurezza, gli investimenti e la tutela dell’asset strategico. Ora ci hanno preso gusto e vogliono salire al piano più alto. Anche se magari smentiranno tutto, questo è il disegno che hanno in testa e, su questo punto, vogliamo essere molto chiari. Quello che a noi fa ribrezzo di questo Stato è che non fa lo Stato, ha mire da padrone o padroncino mascherati e non sa rottamare la peggiore macchina pubblica italiana per cui si perpetua lo scandalo del “decreto illiquidità”: le burocrazie ministeriali e bancarie che sanno solo dire no come documentiamo all’interno anche in tempi di Coronavirus, di Grande Depressione mondiale, e di polveriera sociale italiana. Ogni volta che vediamo sorridere in tv il ministro dell’Economia Gualtieri ci vengono i dubbi se ha capito il momento che sta vivendo il Paese.
Non sappiamo se Patuanelli e Buffagni la pensino uguale, ma sappiamo che coltivano un disegno ambizioso da Stato imprenditore italiano nel mondo. Con loro due e Gualtieri vogliamo essere chiari: non siamo contrari a operazioni di contenuto strategico così rilevanti, ma se non vogliono fare ridere il mondo (ammesso che i Benetton siano davvero della partita) si devono fare dare almeno un 20% di Atlantia da Edizione e, soprattutto, devono fare assolutamente l’esatto contrario di quello che hanno fatto fino a oggi nelle nomine delle aziende pubbliche da loro controllate direttamente o indirettamente tramite Cdp.
Hanno fatto le peggiori nomine pubbliche della storia riempiendo i cda di lottizzati senza né arte né parte. Se vogliono giocare una partita così complicata devono fare una lista di amministratori che prende il meglio del settore e devono salire fino al 29% con il gradimento del mercato che sarà possibile solo su questi nomi non sui loro sciacquini. Perché fare lo Stato imprenditore non significa lottizzare, mettere le mani sulla roba, nominare i propri capetti di fiducia ribattezzati come padroncini di Stato, ma significa prendersi la responsabilità politica di scegliere il meglio come fecero De Gasperi e Fanfani con i Sinigaglia e i Bernabei, significa rispettare le loro decisioni. Significa avere come modello il siculo valtellinese Pasquale Saraceno e il Governatore della Banca d’Italia Donato Menichella, foggiano di Biccari, che conquista con la lira l’oscar mondiale delle monete. Altri tempi, altri uomini.
Non è vero che quegli uomini non hanno avuto eredi. Se a dire “nessuno deve perdere la speranza” è il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, noi ci crediamo. Perché ha la credibilità per chiedere a tutti di guardare lontano, senza nascondersi nessuno dei problemi giganteschi che abbiamo davanti, ma avendo la capacità e l’intelligenza di compiere come Paese “uno straordinario sforzo, tecnico e di progettazione, per sfruttare le opportunità offerte meglio di quanto non abbia fatto negli ultimi decenni con i programmi dell’Unione”.
Bisogna fare quello che si sarebbe dovuto fare da tempo. Riformare e investire con un piano di lungo termine che libera l’economia dai fardelli di una burocrazia opprimente e di una giustizia negata, mette al centro il capitale umano e scommette finalmente sulla ricerca, sulla digitalizzazione e sulle infrastrutture di sviluppo materiali e immateriali a partire dal Mezzogiorno. C’è la coerenza di un pensiero compiuto fatto di cose che si possono verificare e che nascono dalla consapevolezza della complessità. Che esige visione di insieme, competenza di dettaglio e rifiuto di polveroni e banalizzazioni. Proprio quello di cui c’è bisogno per spezzare il rapporto perverso tra garanzie dello Stato, tutele penali mancate, burocrazie bancarie fuori dal mondo e prestiti che non si vedono.
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