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Il ministro Roberto Gualtieri e Fabrizio Palermo (CDP)

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Faccio il padrone, anche il padroncino. Non faccio lo Stato. Non ho un disegno industriale per il Paese, ma metto cerotti su piaghe e ferite di ogni tipo con i soldi che ho e con quelli che non ho. Sono una specie di complicato prestatore di ultima istanza di capitale azionario per tutti i Decotti privati e pubblici che se la passavano già molto male prima della Grande Depressione. Ovviamente lo farò sempre a modo mio, sempre sul filo del rasoio, sempre con mille opacità, sempre con i pesi di quintali di scartoffie che rischiano di fare rotolare giù da un momento all’altro salvato e salvatore. Userò strumenti vari, purché tutti nelle mani degli amici degli amici, quelli che hanno costitutivamente qualche problema a occuparsi di economia sana e di Mezzogiorno produttivo. Hanno altre frequentazioni.


Userò a volte la copertura dell’assicuratore Sace che è a sua volta assicurato dal Tesoro della Repubblica italiana per cui svolge attivamente funzioni di salva-banche e consente di scaricare a medio termine sullo Stato quelle sofferenze che io cattiva impresa ho accumulato negli anni e che le banche non avrebbero mai più recuperato. Ho resuscitato Invitalia come azionista di piccoli imprenditori italiani, quelli che fatturano da 10 a 50 milioni, inventando la figura del padroncino di Stato che in Italia è semplicemente demenziale. Trasformo Cdp che ha in mano ciò che resta della grande impresa italiana che sono società a capitale pubblico di mercato di rilievo in una specie di Pronto Soccorso per tutte le aziende che fatturano sopra i 50 milioni (?) e per tutte le nuove grandi emergenze, come Ilva, Autostrade, Alitalia, senza mai uno straccio di progetto industriale.

Ovviamente non mi occupo di risarcire con soldi pubblici l’economia privata del Nord e del Sud che sa fare le cose molto meglio dello Stato Padrone, dimentico il turismo, rimuovo commercio e artigianato dai miei problemi, ignoro gli “invisibili” e, tanto meno, mi occupo di fare ripartire la domanda interna che è l’unico serio sostegno pubblico che posso dare all’economia sana entrata in difficoltà per colpe non sue in tutti questi settori. Non cambio il codice degli appalti. Non faccio la grande rottamazione. Non cambio la macchina amministrativa pubblica. Non dico come, dove, soprattutto con chi, mi preparo a fare gli investimenti che la Commissione Europea vuole che io faccia e che si appresta a finanziarmi a patto che dimostri di sapere fare lo Stato e, cioè, rendere efficienti gli uffici pubblici, ridurre i tempi della giustizia civile, realizzare infrastrutture di sviluppo. Basta così!


Se vogliamo evitare che l’Italia diventi il grande malato incurabile dell’Europa, bisogna partire dagli uomini. Il primo da cercare è quello che faccia piazza pulita degli azzeccagarbugli e prenda in mano la macchina degli investimenti nella gestione dei fondi comunitari circondato da non più di venti tra ingegneri, tecnici digitali e conoscitori reali delle direzioni europee e delle loro regole operative. Si abbia il coraggio di dire che almeno il 40% della spesa per infrastrutture sanitarie e di sviluppo – finanziata dall’Europa – va al Mezzogiorno e si indichino su carta i quattro progetti strategici da realizzare per perseguire la priorità delle priorità che è l’unificazione infrastrutturale del Paese. L’operazione verità sulle distorsioni della spesa pubblica lanciata e realizzata da questo giornale è stata consacrata in tutte le sedi, ma deve diventare la base condivisa della rinascita delle due Italie capendo una volta per tutte che l’una ha bisogna dell’altra. Tutto ciò è possibile se le Regioni del Sud e del Nord, per la parte di loro competenza, sono zittite dai poteri speciali riconosciuti a livello centrale. Comincerei con il quadrilatero Napoli-Bari-Taranto-Gioia Tauro impegnandomi a fare in anni due l’alta capacità ferroviaria che significa porre le condizioni per dare all’Italia non al Mezzogiorno la sua grande base logistica nel Mediterraneo, collegare finalmente le due grandi aree metropolitane del Sud con le loro intelligenze, rivitalizzare per questa via tutte le aree interne, riqualificare le offerte portuali a partire dal gigante recuperato di Gioia Tauro.


Sulla strada della rottamazione della macchina pubblica al Tesoro non ci sentono. Siccome è in gioco il difficilissimo futuro del Paese o si trova uno straordinario apparecchio acustico che consenta loro di capire e di agire di conseguenza o si mandano tutti a casa prima che sia troppo tardi. Dobbiamo tornare alla Cassa di Pescatore degli anni del miracolo economico quando l’Italia era la lepre nell’utilizzo dei fondi europei. Dobbiamo farlo digitalizzando tutto e semplificando al massimo le procedure. Dobbiamo farlo sporcandoci le mani con il codice degli appalti per fare in modo che il modello Genova diventi il modello Italia. Dobbiamo volerlo politicamente e essere conseguenti sul piano operativo. Tutto il resto sono chiacchiere incendiarie perché la polveriera sociale è già esplosa. Il cerino delle parole vuote della politica e della solita cassa per i Soliti Noti è la miccia che può scatenare l’inferno d’autunno.


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