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Il “processo” al direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera, è in pieno svolgimento e la temperatura dei rapporti tra Tesoro e Palazzo Chigi ne risente. Gualtieri che difende Rivera è, a sua volta, sotto osservazione di pezzi sempre più rilevanti del Pd. Quasi nessuna delle scelte operate dal Tesoro per affrontare l’emergenza economica è condivisa da Italia Viva e da gran parte del Movimento Cinque Stelle. Quello che c’è dietro tutto ciò è una verità innegabile: la macchina amministrativa del Tesoro della Repubblica italiana è fatta per prendere soldi non per darli. L’esatto opposto di quello che serve oggi all’Italia.
Il punto è che come questo giornale ha anticipato dal primo giorno solo un “pazzo” poteva inventarsi anche la trafila davanti alla Sace, che di mestiere fa l’assicuratore sull’export, e trasformare in un perfetto “decreto illiquidità” un provvedimento presentato addirittura come una potenza di fuoco mai vista da 400 miliardi nel plauso compiacente di tutti i giornali cosiddetti di qualità. Balle assolute. Che rischiano di fare dell’Italia lo Stato da vendere e di portare al capolinea il governo Conte. C’è chi ricorda dubbi e perplessità avanzati da Palazzo Chigi sul primo decreto per il cumulo di burocrazie coinvolte e c’è chi sottolinea che Conte ha chiesto scusa agli italiani ma ancora aspetta che chi ha così clamorosamente fallito si assuma la responsabilità dei propri errori.
A noi interessa solo chiarire che senza una tutela penale al 100% e, soprattutto, senza l’esclusione della segnalazione alla Centrale rischi dai criteri di affidabilità, la piccola e media impresa meridionale e gran parte di quella settentrionale sono escluse a priori da un provvedimento che peraltro non riesce a produrre effetti per nessuno. Siamo al fallimento del fallimento. Miserabile il silenzio complice delle classi dirigenti di governo delle Regioni meridionali su questo pastrocchio e sulle manovre nordiste in Cdp.
All’Italia non serve solo la liquidità, ma contributi a fondo perduto che compensino le perdite di fatturato delle aziende determinate dalla decisione dello stato di chiudere le stesse aziende. Non si possono scambiare soldi veri tolti con garanzie che sono promesse di prestiti onerosi. Questi giochetti della amministrazione italiana sono insopportabili in tempi di pace, ma diventano mortali in tempi di guerra. Se suscita interrogativi il sostegno di Cdp con i suoi fondi cosiddetti strategici a aziende private del Nord che decotte erano e decotte sono rimaste, anche dopo l’intervento, è oggi inammissibile solo concepire l’idea di riproporre questa specie di Gepi dei ricchi che altro non è che cassa pubblica regalata a un capitalismo privato da rapina. Per ripartire davvero servono liquidità, da ieri, e contributi a fondo perduto, da oggi.
La dote straordinaria di 50 miliardi che si vuole attribuire a Cdp ha un senso se finanzia l’unificazione infrastrutturale del Paese e partecipa a società di capitale pubblico di mercato di valore strategico. Se Kohl avesse avuto intorno un Rivera tedesco non avrebbe mai imposto il cambio alla pari per il marco tra le due Germanie. Qualcuno, tabelle alla mano, gli avrebbe fatto notare che non si poteva fare. Presidente Conte, faccia saltare quelle tabelle e se qualcuno si ostina a raccattarle per terra e a rimetterle sul tavolo, vuol dire che è lui che deve andarsene. Perché dall’altra parte ci sono milioni di persone che non hanno più reddito e se si esita ancora non avranno più un lavoro per sempre. Oggi l’Italia si salva proteggendo subito l’economia e poi lanciando un piano straordinario di investimenti pubblici. In entrambi i casi per fare le cose serve un’altra macchina dello Stato.
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