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Servono società a capitale pubblico che operino secondo logiche di mercato di lungo termine con visione industriale e una amministrazione con pochi uomini di qualità dotati di poteri sostitutivi per gli investimenti
NON CI resta che lo Stato imprenditore. Non ci resta che la macchina dello Stato fatta di pochi uomini di qualità dotati di poteri sostitutivi. Vanno recuperati sulle macerie del cupio dissolvi italiano fatto di imprenditorini del private equity foraggiati senza misura e di accanimento culturale nel chiedere al capitale privato della doppia morale quello che non ha, non sa o non può dare. Nel primo caso l’Italia ha disperato bisogno di società a capitale pubblico che operino secondo logiche di mercato di lungo termine con visione industriale, competenza tecnica e capacità operativa. Lo fanno bene in Francia, in Spagna, possiamo farlo anche noi, gli imprenditorini si accomoderanno e ringrazieranno.
Nel secondo caso dobbiamo valorizzare le risorse umane sopravvissute della buona amministrazione, sono più di quello che pensiamo, dobbiamo retribuirle meglio secondo criteri meritocratici, e soprattutto dobbiamo dotarle di poteri sostitutivi, proteggerle in modo trasparente dalle perfidie degli intrecci normativi e delle mille (in)giustizie italiane. Se facciamo questo torneremo ad attrarre, non vi sembri un paradosso, il nostro capitale più straordinario: il talento giovanile che formiamo e paghiamo noi, ma regaliamo al mondo senza vergogna e senza pentimento.
Lo ho già detto, ma mi piace ripeterlo. Le cose camminano sulle gambe degli uomini. Questo Paese di classe dirigente non ne ha due. A malapena ne ha una. Non possiamo continuare con i numeri due, meglio conosciuti come Cfo, che vivono incollati all’amministratore delegato e, quasi sempre, ne prendono la poltrona. Sono i capi della finanza, loro si propongono agli azionisti per la nomina a numero uno, ma soprattutto gli azionisti troppo spesso li accontentano. Non va proprio bene. Perché una cosa è dialogare con le banche, ristrutturare le posizioni finanziarie, un’altra è avere cultura industriale, concepire un disegno strategico di sviluppo, inventare qualcosa che compete e dura nel tempo, fare infrastrutture che coniugano profitto e sicurezza. Siamo arrivati al dunque. Non abbiamo più le grandi aziende del capitalismo familiare e non essendo più padroni della nostra economia l’amministratore delegato francese di Unicredit può annunciare nello stesso giorno un utile miliardario e un piano straordinario di esuberi concentrato massimamente in Italia. I francoindiani di Mittal, dopo averli accerchiati con due Procure, si permettono di tornare al tavolo e sbattere in faccia al governo italiano e al sindacato il loro piano originario di 4.700 esuberi.
Ma che cosa dobbiamo ancora aspettare per capire che possiamo ripartire solo con investimenti pubblici e “imprenditori pubblici”? Per fare la perequazione infrastrutturale impiegando in fretta e bene le risorse disponibili. Per occuparsi seriamente da qui ai prossimi venti anni di industria e turismo con un cambio di mentalità. Valga per tutti la disponibilità manifestata alla luce del sole da Intesa SanPaolo, sul tema delicato dell’Ilva, mentre tutti stavano lì a questionare su chi ci mette i soldi e, peggio, sulla follia di chi lo avrebbe fatto. Per evitare di passare dal luogo comune al ridicolo segnalo che se c’è un capo azienda che sa che cosa è il mercato di oggi e di domani questo si chiama Carlo Messina e nessuno si può permettere nemmeno di pensare che possa fare un piacere a qualcuno.
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