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Povera Italia! Uno, due. La seconda banca italiana, Unicredit vende la sua quota in Mediobanca, primo azionista di Generali, senza dire niente a nessuno, continua a fare cassa e si prepara a cambiare pelle lontano da casa. Qualche segnale a Palazzo Chigi? Un avviso informale? Non scherziamo, siamo in Italia mica in Francia. Per rimettere intorno a un tavolo gli indo-francesi di Arcelor-Mittal il governo italiano si copre il capo di cenere e si affretta a rimettere le tutele penali e a attivarne di altre per decreto sul nodo scottante dell’altoforno due. Ovviamente non basta, si deve preparare a accettare una revisione importante del piano industriale che significa meno industria e meno lavoro che sono meglio del nulla. Si paga il conto di un Paese che da venti anni ha rinunciato a fare investimenti pubblici e da dieci ha addirittura azzerato l’intervento in infrastrutture nelle sue regioni meridionali. È quasi un miracolo che sia ancora in piedi. Procediamo con ordine, partendo dalla finanza.
L’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, si frega le mani. Si è tolto di mezzo un azionista ingombrante in casa e, per di più, in conflitto di interessi: l’8,4% della banca di affari detenuto da Unicredit è stato interamente collocato sul mercato, il racconto di Mustier che agisce di concerto con Del Vecchio, il patron di Luxottica salito al 7%, è smentita dai fatti e qualora dovesse finire a lui un pezzo della quota dismessa sul mercato la sostanza non cambia. Se il fortino di Mediobanca è meno sicuro, lo è anche Generali, il pezzo più pregiato di casa nostra? No, dice Nagel, Generali è al sicuro perché tra il 14% di Mediobanca e i soci privati c’è una barriera di sicurezza che arriva al 30%.
Noi ci permettiamo di sottolineare che solo un francese dalla testa ai piedi, come è Jean Pierre Mustier, e solo un francese in Italia può permettersi di vendere l’8,4% di Mediobanca dalla tolda di comando della seconda banca italiana, Unicredit, senza dire niente a nessuno, senza fare un cenno a nessuno dei governanti di questo piccolo Paese che si chiama Italia. Se lo stesso Mustier era al timone di Crédit Agricole e avesse deciso di vendere sul mercato una quota rilevante di Amundi, il risparmio lombardo-veneto ceduto proprio dallo stesso Mustier ai suoi amici francesi qualche anno fa, state certi che di passeggiate avanti indietro negli uffici di Macron o del ministro dell’Economia Le Maire ne avrebbe fatte più d’una. Il tema finanziario che deve interessare l’Italia oggi è solo questo. Soprattutto se dovesse prendere corpo il progetto di mettere sotto la holding italiana Unicredit una sub-holding tedesca nella quale fare confluire tutte le attività internazionali di Unicredit per cui il profilo e la polpa della banca diventano tedesche e la holding italiana diventa poco più che la filiale italiana di quella superbanca di sede a Francoforte.
Diciamo le cose come stanno. Prima la vendita di Amundi, poi di Fineco, ora di Mediobanca, hanno una sola spiegazione: fare cassa lucrando plusvalenze e vendendo al migliore offerente per prepararsi a un grande merger internazionale. Logiche di mercato che non intendiamo discutere, ma per un Paese manifatturiero che non ha più grandi imprese manifatturiere, è spaccato in due con redditi pro capite l’uno la metà dell’altro, non riesce a fare investimenti, vedere una grande banca come Unicredit cambiare pelle e interessi qualche riflessione serie deve imporla.
Su industria e reddito tra le due Italie non sgocciola nulla. Mettiamocelo in testa. Al massimo, sgocciola solo la povertà futura del Nord ricco che si aggiunge alla povertà presente del Mezzogiorno prodotto da venti anni di sonno di investimenti in attesa di sgocciolamenti che non arrivano. Se fa un piccolo sforzo perfino Claudio De Vincenti, uno degli esempi viventi di quella politica italiana ottusa che ha consentito e avallato il più colossale furto di Stato operato dal Nord al Sud che ha deindustrializzato il Mezzogiorno e impoverito l’Italia, può smetterla di girare il Paese con un Manifesto per il Sud (sì, avete capito bene: per il Sud) senza ammettere le sue gravissime responsabilità e ripetere il discorsetto (patetico) che gli investimenti nel Mezzogiorno non si fanno per un problema di burocrazia.
Se vuole avere un minimo di credibilità questo signore che pontifica anche sulle macerie dell’ex Ilva di Taranto, quando esplode la bomba sociale voluta dalla politica predona del Nord e dalla malagiustizia, deve sottoscrivere l’operazione verità lanciata da questo giornale, documentata dalle principali istituzioni statistiche e contabili del Paese, fatta propria e rilanciata dal presidente del Consiglio e da ministri di peso. Senza questa ammissione di colpa si continua a mistificare con la storiella della burocrazia e a mestare nel torbido che ha consentito sottobanco alle imprese del Nord di sostituire l’interdipendenza virtuosa con le imprese del Sud con quella da subfornitore con le imprese tedesche.
Il risultato di questo capolavoro è che le imprese del Nord producono sempre meno beni finali e sempre più produzioni intermedie (dipendenza) non vendibili nel Mezzogiorno privo di un adeguato tessuto industriale e che i residenti nelle regioni meridionali hanno visto crollare i loro redditi e consumano sempre meno, anche nell’alimentare, qualcosa che vale l’11% dal 2008 al 2017.
Se si fosse dato retta al pensiero dominante dei De Vincenti e del partito trasversale del Nord (non essendoci domanda è inutile fare infrastrutture al Sud) e se avessero vinto questi signori o i calcoli da ragionieri di Tim, mai e poi mai l’amministratore delegato dell’Enel avrebbe potuto fare Open Fiber e cablare 8 milioni di case in un anno e mezzo e raddoppiare gli investimenti da 1,5 a 3 miliardi l’anno. Non funziona così nel mondo, non funziona alla De Vincenti che è poi solo l’ultimo giocatore dello squadrone politico del Nord; se lo Stato vuole dirigere i flussi di investimenti pubblici e privati deve fare le infrastrutture che sono essenziali per attrarre capitali. Nel Mezzogiorno i capitali non ci vanno non perché le persone non lavorano o perché ci sono burocrazie e giustizia da fare accapponare la pelle (sono al Sud come al Nord) ma perché mancano le infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali, aeroportuali, di rete elettrica e di cablaggio. O meglio: ci sono queste infrastruture, ma sono ferme agli anni Settanta e Ottanta. Quando con tutti i difetti per gli investimenti l’Italia era ancora una.
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Purtroppo credo che per il bene dei nostri figli (forse per loro è tardi) ma sicuramente dei nipoti l’unica via di salvezza è la separazione dal resto del paese. ho la veneranda età di 66 anni e l’avevo capito da oltre vent’anni come andavano le cose. Da quando è stato fatto languire il Porto di Gioia Tauro per non inimicarsi gli elettori genovesi, livornesi e triestini. Il Porto di Gioia Tauro, con tutti gli annessi e connessi, sarebbe stato il volano per tutto il Sud e avrebbe potuto invertire lo sviluppo.
Sono pienamente d’accordo con lei; questa unione è finita nel momento in cui sono finiti i finanziamenti alla Cassa per il Mezzogiorno di cui la maggior parte finiti al nord e comunque capaci di generare una crescita in termini di infrastrutture (solo per alcuni) e socio economici. Da quel momento il Sud per questo non-stato non è più esistito se non nell’erogazione delle briciole e se qualcosa è stato fatto lo dobbiamo ai fondi europei, anche quelli finiti in parte a finanziare il nostro fratello Caino (denuncia UE). Non c’è più tempo da perdere se non vogliamo la nostra fine.