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Giulia Cecchettin

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I sacrifici umani di una giustizia inumana: il caso del padre di Filippo, assassino di Giulia Cecchettin, messo alla gogna


Le tricoteuse della gogna sono peggio del boia. Lui ha esposto il volto del mostro sulla pubblica piazza, loro concionano in attesa che la testa mozza cada nel catino di zinco. Il mostro è il papà di Filippo Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin. Invano prova a spiegarsi in una smorfia di dolore, con il collo già serrato tra le semilune della ghigliottina: «Mi vergogno per le frasi che ho detto a Filippo, ma temevo che lui si suicidasse».

Sotto un cielo livido, da cui pare scomparsa ogni umana pietà, le tricoteuse infilzano l’uncinetto nella loro maglia di cinismo: la deputata della commissione bicamerale contro il femminicidio Susanna Campione dice che le parole di quel padre fanno orrore e sono prova di un’educazione tossica, il grande psichiatra Paolo Crepet invece la mette giù con esibita sapienza. Critica il «giustificazionismo genitoriale»: «Lui è un padre e dovrebbe anzitutto chiedersi come sia potuto crescere un assassino nella sua casa – ammonisce – Dovrebbe dire al figlio: se tu sei qui, è anche colpa mia». E vien da pensare che niente conduca più velocemente una traiettoria umana alla tragedia, quanto uno scadente magistero della psicanalisi.

Le idee hanno sloggiato dal campo visivo le persone. Queste semplicemente non si vedono più. Perché, tra l’intercettazione e il racconto mediato, la scena ha perduto qualunque realtà. La realtà è quella del primo incontro in carcere tra un padre e un figlio, dopo un delitto orribile. Per capirci qualcosa, bisognerebbe saper entrare nel brusio interiore dei brividi. Ma il giudizio della piazza è disincarnato, sterilizzato da qualunque immedesimazione. Così ci si sorprende, e ci si indigna, che il genitore esorti il ragazzo a farsi forza e a studiare. E qui il senso comune mostra tutta la sua abissale distanza dal senso del limite. Perché esiste forse una competenza, un’esperienza, una sensibilità, una saggezza che possa suggerire a un padre le parole giuste per un simile colloquio?

Poi c’è chi, come «la Repubblica», fa il doppio gioco. Con una mano, quella del cronista anonimo, scrive che quel padre voleva sminuire il delitto. E con l’altra, quella dell’opinionista di grido, Michele Serra, si smarca dal «Reality», al quale – dice – «non siamo iscritti». Senonché la sua censura, oltre che doppia, è cieca. Serra si chiede «come mai i colloqui di un carcerato con i genitori, privi di qualunque rilevanza giudiziaria, finiscano sui giornali». Ma non si chiede come mai stessero in un atto istruttorio destinato a divenire pubblico. Non si chiede, ancora, come mai le intercettazioni di un detenuto con i genitori siano autorizzate di primo acchito, anche se, per legge e per massima giurisprudenziale, sarebbero ammesse solo se indispensabili, cioè solo se ogni altro rimedio per accertare la colpevolezza fosse stato impiegato senza esito.

Il suo digiuno di diritto lo fa (inconsapevole?) voce di quello Stato di polizia morale che la retorica della sua «Casa madre» ha instaurato nel Paese in decenni di sermoni. Dice che considererebbe un’odiosa violenza che qualcuno (esclusi gli inquirenti) leggesse nero su bianco le sue parole. Sostiene cioè indirettamente che gli inquirenti quel diritto ce l’hanno. Per il bene comune gli inquirenti possono ramazzare nella privatezza di chiunque, senza che ciò rappresenti una violenza?

Non è così, Michele Serra. In una democrazia liberale l’azione penale dovrebbe operare, come si dice con efficace metafora, con una mano dietro la schiena. Il colloquio dei genitori con un detenuto dovrebbe essere inviolabile, ancorché è prassi ricorrente del nostro sistema investigativo che sia intercettato. Ma quale elemento di colpevolezza quelle frasi captate possono aggiungere sul delitto di un reo confesso, peraltro interamente chiarito nella sua dinamica? Chi le ha trascritte e inserite in un fascicolo istruttorio pubblico? Chi le ha passate ai giornali? Ecco il boia. Quello che Serra, e non solo lui, non vedono.

Il boia se ne sta immobile a godersi la scena, davanti al patibolo, nella sua irresponsabilità, civile, deontologica e professionale. È una figura proteiforme, come una scultura cubista. Ogni faccia mostra un lato della catena inquirente che fa acqua. O meglio, fango. Fango come l’effetto di un calpestare senza regole nella palude della vita di ciascuno, stupendosi di trovarla sporca. Fango che una sinistra smania di potere esibisce per sentirsi, con tentazione totalitaria, padrona della pubblica opinione.
In un Paese appena civile, di un simile boia ci si dovrebbe occupare. Perché è lui che offende la memoria della povera vittima, Giulia Cecchettin. Non il padre dell’assassino, un altro, l’ennesimo, sacrificio umano di una giustizia inumana.


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