Il pugno al cielo di Tommie Smith e John Carlos contro il razzismo alle Olimpiadi del 1968
7 minuti per la letturaUNO sprint sui cento metri o un lancio del giavellotto o un testa a testa in piscina non possono essere assimilati all’evoluzione dei rapporti tra Stati, né tanto meno si può pensare che possano determinare i destini del mondo; eppure, da quando esistono le Olimpiadi moderne, 128 anni fa la prima edizione ad Atene, quasi sempre la grandiosa competizione sportiva si trasforma nello specchio sul quale si riflettono caos, miserie e speranze del mondo. E sarà così anche per Parigi 2024.
Una premessa è fondamentale. L’importanza economica e allo stesso tempo politica dello sport non può e non deve essere discussa. Lo sport in quanto tale, e le grandi manifestazioni sportive con coperture mediatiche globali in particolare (mondiali di calcio, olimpiadi appunto, ma anche Tour de France o Super Bowl di football americano), sono straordinari veicoli di soft power e diplomazia culturale. Il concetto di sportwashing, ovvero di costruzione di una reputazione internazionale da parte di soggetti statutari emergenti o comunque discutibili sul fronte del rispetto dei diritti civili, politici e sociali utilizzando il veicolo sportivo, è entrato a pieno titolo nei libri di relazioni internazionali. Anche in questo caso gli esempi si sprecano. Basti pensare all’operazione qatariota con il calcio, sia per quello che riguarda l’acquisto di squadre di club prestigiose portate ai maggiori traguardi europei (Manchester City e Paris Saint-Germain su tutti), sia per quello che riguarda l’organizzazione dei recenti mondiali appunto in Qatar nell’inverno del 2022. Ma se non ci si vuole allontanare dal tema olimpico si possono citare le Olimpiadi di Pechino del 2008, vetrina globale fortemente voluta dalla Cina per certificare il proprio protagonismo capital-comunista in un multipolarismo a guida asiatica. E ancora restando nel perimetro olimpico, ma questa volta guardando verso Mosca, fondamentali sono i passaggi di Sochi 2014, con la Russia impegnata nel mostrare al mondo la propria efficienza e capacità organizzativa mentre si impossessava della Crimea, o di Pechino 2022 (anche in questo caso come per Sochi giochi olimpici invernali), teatro dell’incontro storico sull’“amicizia senza limiti” tra Xi e Putin. Due giorni dopo lo spegnimento della fiaccola olimpica invernale, l’autocrate russo ha poi optato per la vile invasione dell’Ucraina.
Chiarita la dimensione politica dello sport, e nello specifico delle Olimpiadi, è possibile affermare che il “momento olimpico” accende i riflettori sui molti mondi che si muovono dentro al mondo reale e sui loro caos interni. Vittorie, sconfitte ma soprattutto gesti simbolici da parte degli atleti si tramutano in altrettanti messaggi: lotta per la parità, uguaglianza, contrapposizione a forme arcaiche di razzismo e sostegno a più moderne sensibilità antidiscriminazione. Anche in questo caso è la storia a venirci in soccorso. La memoria corre agli anni della contrapposizione tra i due blocchi, ma non si devono dimenticare anche le tensioni del dopo Prima guerra mondiale con l’esclusione della Repubblica tedesca per ben due edizioni (1920 e 1924) come ulteriore sanzione dopo la pace di Versailles. Lo stesso destino tocca alla Germania post-hitleriana alle Olimpiadi del 1948 e anche al Giappone, individuati come responsabili unici dello scoppio del secondo conflitto mondiale. La Guerra fredda è piena di esempi più o meno noti. A questa seconda categoria appartengono i boicottaggi degli Stati Uniti, alle Olimpiadi di Mosca del 1980, di Mosca a quelle di Los Angeles di quattro anni dopo, ma anche il meno ricordato boicottaggio di 27 Paesi africani alle Olimpiadi del 1976, in risposta alla scelta neozelandese di partecipare ad alcune partite di rugby preparatorie giocate in Sud Africa (da tempo escluso dal Comitato olimpico per l’apartheid). Ugualmente molto nota è la figura di Nadia Comaneci, triplice medaglia d’oro alle già citate Olimpiadi di Montreal e simbolo di un blocco orientale all’apice della sua forza sportiva, ma in fase declinante da un punto di vista economico e politico.
Meno ricordata è la cosiddetta partita della “piscina rosso sangue”. Siamo nel dicembre 1956, alle Olimpiadi di Melbourne, e da poche settimane i carri sovietici hanno represso nel sangue il tentativo di “via nazionale al socialismo” portata avanti dall’Ungheria di Imre Nagy. Si gioca la semifinale del torneo di pallanuoto tra i campioni olimpici in carica dell’Ungheria e la squadra sovietica. La partita si conclude con una netta affermazione degli ungheresi, ma soprattutto con un caos fatto da serie di risse e violenti colpi proibiti che ridurranno la piscina delle Olimpiadi in una specie di “arena” chiazzata di sangue. A proposito poi di gesti simbolici o di vittorie altamente evocative anche qui il catalogo potrebbe essere infinito. I pugni alzati e guantati di nero dei due velocisti afroamericani sul podio delle Olimpiadi di Città del Messico sono una istantanea che va al di là dello steccato della manifestazione sportiva ed entra a pieno titolo a far parte dell’iconografia dei movimenti sociali del ’68 globale. Meno nota, ma per certi aspetti ancora più dirompente, è la vittoria sui 400 ostacoli della velocista marocchina Nawal El Moutawakel a Los Angeles nel 1984. Prima donna mussulmana a vincere un oro olimpico, il suo trionfo ha aperto le porte per una radiosa carriera politica (nel suo Paese e all’interno del CIO), ma soprattutto ha fatto di lei un esempio di emancipazione in un contesto così chiuso per il genere femminile come quello del mondo islamico.
Se le Olimpiadi di Atlanta (città della Coca-Cola) del 1996 hanno rappresentato l’apice dell’illusione di un mondo unipolare e quelle di Pechino nel 2008 hanno incarnato il simbolo di un multipolarismo consensuale, a guida sino-americana, cosa c’è da attendersi da Parigi 2024? Oltre ad essere Olimpiadi blindate, con una cerimonia di apertura sottoposta a misure di sicurezza mai viste prima, lo specchio di Parigi riflette il mondo in frantumi e a-polare nel quale viviamo. Un mondo attraversato da conflitti armati che si stanno perennizzando, come quello russo-ucraino, e che ripropongono una dramma lungo oramai ottant’anni, come quello israelo-palestinese. Ma anche un mondo lacerato da conflitti politici che devastano le singole comunità statutarie, sclerotizzate e dominate da un grado di polarizzazione e di delegittimazione davvero preoccupanti. E in questo senso le cronache delle pazze giornate statunitensi paiono dominare la scena. Le Olimpiadi di Parigi 2024 si inseriscono a pieno in questo caos globale.
Prima di tutto niente “tregua olimpica”, nonostante la risoluzione Onu, le richieste del presidente francese e il rilancio di quello cinese. In secondo luogo, la cerimonia inaugurale sarà grandiosa come nessun’altra prima, con circa 100 barche pronte ad ospitare gli oltre diecimila atleti che sfileranno lungo la Senna e soprattutto con la possibilità di assistervi non in uno spazio chiuso e circoscritto come quello di uno stadio. Alla cerimonia saranno rappresentati tutti i continenti, ma a spiccare saranno forse più le assenze illustri che le presenze. Mancheranno numerose figure di peso. Non saranno presenti né Joe Biden, né la vice e neo-candidata Kamala Harris, mancheranno Xi Jinping ma anche Narendra Modi e Lula da Silva. Come è ovvio, in quanto leader di un Paese sanzionato e in quanto personalmente sottoposto ad un mandato di cattura internazionale, non sarà presente Vladimir Putin. E anche la delegazione di atleti russi è ridotta all’osso, una quindicina di atleti in tutto, dopo il braccio di ferro con il Cio. Allo stesso modo Gaza e la guerra in atto tra Israele e Hamas entreranno con tutto il loro traumatismo nella competizione olimpica. Sotto osservazione saranno le reazioni del pubblico presente lungo la Senna in occasione del passaggio degli otto atleti palestinesi e dei quasi novanta israeliani.
Infine, il vero apice di questo quadro frantumato e contraddittorio è rappresentato dalla congiuntura politica che il Paese organizzatore e ospitante sta vivendo. Nelle intenzioni di Macron, la vetrina olimpica avrebbe dovuto dare lustro alla Francia, alla sua diplomazia multilaterale e alla sua capacità organizzativa. Il problema è che i riflettori mediatici illuminano Parigi in uno dei peggiori momenti della sua storia post-bellica, se si eccettua la drammatica fase 1954-1962 della guerra d’Algeria. Al termine della sequenza elettorale delle europee e delle legislative anticipate, il Paese si trova senza una maggioranza parlamentare chiara e con un governo dimissionario, in carica solo per l’ordinaria amministrazione, in un momento di assoluta straordinarietà (in particolare per i temi connessi all’ordine pubblico). Accanto all’auspicio, forse un po’ retorico, che tutto proceda bene sul fronte sicurezza e che lo spirito delle olimpiadi trionfi, c’è da sperare che l’occasione sia colta da Macron e dai molti leader comunque presenti (tra questi spicca il presidente Mattarella) per dialogare e cercare qualche soluzione al caos globale. Tutto ciò senza dimenticare che, con buona pace dello spirito di de Coubertin, a contare alle Olimpiadi sarà come sempre il medagliere e, di conseguenza, per sedici giorni dominerà un certo fervore identitario e nazionalista, non così avulso dall’esprit du temps di questo mondo in caos e in frantumi e senza leadership chiare e trainanti.
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