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È possibile fare una breve historia di quest’ultimo lustro di governi italiani prendendo lo spread a testimone degli accadimenti? «Chi v’ha guidati o che vi fu lucerna…», scrive il Poeta; e lo spread può in effetti essere guida e lucerna della fatica dell’Italia, abbassandosi e alzandosi al ritmo dei giudizi dei mercati, giudizi che guardano non solo all’economia ma anche alla società.

Si potrà dire che lo spread ha perso di importanza, perché quello che conta è il livello assoluto dei tassi, livello che è vicino ai minimi storici per i nostri titoli pubblici a 10 anni, ed è questo livello che influisce sulla tenuta dei conti pubblici. Ma questi bassi livelli sono stati influenzati, e di molto, dalla politica monetaria espansiva della Bce, talché non possono essere presi a simbolo dell’affidabilità dell’Italia. Il giudizio di affidabilità deve allora essere relativo, non assoluto, e lo spread cattura appunto questo divario fra ‘noi’ e ‘loro’, sfrondando quella discesa dei tassi che è un fattore comune.

L’Italia è oggi stretta fra l’angoscia dell’Ilva e l’angoscia del Mose –due simboli, appunto, angoscianti – delle antiche e nuove magagne che ci collocano all’ultimo posto in Europa nella crescita. Potrebbe l’Italia crescere di più?

La risposta è ‘sì’, solo che si guardi a quella grandezza che rappresenta l’uso delle risorse: il saldo corrente con l’estero, quando è positivo (e in Italia lo è da 6 anni, e quest’anno sfiora il 3% del Pil), indica che l’Italia consuma meno risorse di quante ne produca: nella fattipecie del 2019, produce 100 e consuma 97. Non ci sono ostacoli, insomma, a che gli italiani consumino e investano di più. Questa scarsità della domanda interna non è dovuta al settore pubblico, ché la pubblica amministrazione è in deficit e spende più di quanto incassi. Potrebbe fare di più? Potrebbe, ma è invischiata nelle strettoie delle regole europee: giuste o sbagliate che siano, non è realistico pensare che l’Italia possa fare una ‘fuga in avanti’ spendendo e spandendo (a parte quel che si dirà più sotto).

Se l’Italia consuma meno di quel che produce, quindi, la ‘colpa’ è del settore privato. Le propensioni alla spesa di famiglie (consumi e case) e imprese (investimenti e scorte) rimangono basse. Cosa manca per innalzare queste propensioni? È presto detto. Manca la fiducia. Il senso di identità degli italiani è stato minato da cambiamenti epocali, globalizzazione, immigrazione, tecnologia….

Così è cresciuto il populismo, che risponde a esigenze vere e dà risposte sbagliate. E non cresce solo il populismo. Crescono anche le diseguaglianze. Il rimescolio dei posti innestato da tecnologia e globalizzazione ingenera incertezza e tensioni. La sicurezza del posto di lavoro non è più quella di prima. Il lavoro si ritrova (i tassi di disoccupazione sono scesi parecchio, sono ai minimi storici in Usa e Giappone e in Italia l’occupazione avanza, magrado tutto), ma la sicurezza no.

Il populismo e diseguaglianze non hanno solo ramificazioni politiche. Hanno anche effetti economici. L’economia rallenta perché l’invidia sociale e l’incertezza sull’avvenire minano le propensioni alla spesa di famiglie e imprese. Il grafico mostra come i giudizi sull’Italia, dipinti dallo spread, siano cambiati nell’ultimo lustro. Il governo Letta accompagnò la discesa di quel divario, che proveniva dalle vette toccate con la crisi del 2011-12, crisi bloccata dal governo Monti. Il governo Renzi aveva suscitato molte speranze e lo spread cadde verso quota 100, ai livelli più bassi dal 2010. Ma poi ricominciò a risalire, dopo la bocciatura (infausta) del referendum sulle riforme costituzionali.

Il governo Gentiloni riuscì a domare quel peggioramento, e alla vigilia delle elezioni del 2018 il divario era sceso a 130. Ma poi schizzò verso l’alto e superò i 300 punti quando divenne chiaro che il governo gialloverde – un misto di arroganza e di incompetenza, condito da pulsioni anti-Europa – non aveva né capacità né esperienza. Lo spread ricominciò a discendere, aiutato anche dalla poltica della Bce, quando divenne chiaro che l’episodio gialloverde era fallito: tornò a un minimo di 140, ed è oggi risalito a 165: lontano dalle vette pericolose toccate con il governo Conte 1, ma abbastanza alto per capire come l’Italia sia ancora un ‘sorvegliato speciale’.

Lo spread è un indice della fiducia dei mercati. E i mercati esprimono sfiducia perché gli italiani stessi sono sfiduciati. Come il coraggio di don Abbondio, se uno non ha la fiducia non se la può dare. Dove si può trovare un deus ex machina per dare una spinta all’Italia?

Il testimone torna da un settore privato sfiduciato a un settore pubblico impastoiato dalle regole europee.

Come se ne esce? L’unica maniera è quella di puntare sugli investimenti pubblici, a cominciare dal Mezzogiorno, confidando nella comprensione dell’Europa per una spesa che innalza la capacità di crescere e alfine si ripaga da sola. Ma per puntare sugli investimenti pubblici bisogna prima smontare i lacci e lacciuoli – vedi il caso Mose – che stringono nelle maglie dell’impotenza ogni progetto infrastrutturale. La sfida è epocale, ma è necessario vincerla se vogliamo uscire dalla gabbia della stagnazione.


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