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Il presidente Mario Draghi

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Dovremo fare in due anni quello che in sei sette anni non siamo stati capaci di fare mai. O l’Italia diventa un Paese normale dove chi firma per l’apertura di un cantiere non è più perseguitato a vita o non ce la farà. O saremo capaci di cambiare le teste e il metodo di lavoro delle amministrazioni centrali e regionali o non riusciremo né ad attuare le riforme di struttura già approvate né a fare gli investimenti che ci siamo impegnati a fare con l’Europa. Sarà arido, sarà banale, come ha detto a braccio Draghi davanti alla platea degli imprenditori, ma se la macchina non gira si ferma tutto

Siamo nel momento cruciale. Il Paese ha bisogno di un grande patto su investimenti, capitale umano e produttività. Ha bisogno di un grande patto per la crescita che faciliti la riunificazione delle due Italie. Il senso politico finale è quello di lavorare tutti per una ripresa che diventi stabile. Non ci può essere divisione su questo punto perché è l’unica risposta possibile al nuovo ’29 mondiale e, allo stesso tempo, l’unica ragione sociale della politica di oggi. O il sindacato accetta la condivisione di questo passaggio cruciale o si condanna alla marginalità. Può scegliere la strada dello scontro, ma equivale a scegliere di perdere in partenza.

Green pass 1. Green pass 2. Riapertura in sicurezza della scuola. Primato per la vaccinazione nel mondo in proporzione alla popolazione. Nuova accoglienza internazionale dell’Italia e fiducia contagiosa che determina il boom dei consumi e il rimbalzone del prodotto interno lordo. Diciamoci le cose come stanno. Se oggi non si fa il patto sociale e non si cambia la pubblica amministrazione per sbloccare gli investimenti, siamo noi a sprecare l’ultima grande occasione che la storia ci offre. È indubbio che tutto ciò è possibile per il momento relativamente positivo che vive il Paese in un contesto ereditato di lacerazione sociale e di grande difficoltà proprio grazie al nuovo metodo Draghi e al credito reputazionale di cui il premier gode nel mondo.

Bisogna, però, rimanere con i piedi per terra e mettere le cose al posto giusto. È molto apprezzabile, ad esempio, che il mondo delle imprese dimostri piena consapevolezza del momento e chieda al sindacato di impegnarsi con loro per fare insieme un grande patto per l’Italia con il governo. A condizione, però, che non continuino a dire che è tutto merito loro e che il Paese è ripartito grazie alla sua manifattura perché purtroppo l’industria pesa per il 16/17% del totale e il rimbalzone (+6% di Pil) è frutto del fatto che gli italiani hanno cominciato a spendere un po’ del risparmio accumulato perché credono nel governo Draghi e hanno voglia di ripartire.

Chiariamoci: non vogliamo togliere nulla alla nostra manifattura esportatrice che è dinamica e vitale, ma la domanda globale potrebbe essere meno forte del previsto e la sua partita decisiva il Paese la gioca in casa. O l’Italia diventa un Paese normale dove chi firma per l’apertura di un cantiere non è più perseguitato a vita o non ce la farà. O saremo capaci di cambiare le teste e il metodo di lavoro delle amministrazioni centrali e regionali o non riusciremo né ad attuare le riforme di struttura già approvate né a fare gli investimenti che ci siamo impegnati a fare con l’Europa bruciando la carta estrema per la nostra salvezza che è appunto Draghi.

L’Europa ha messo sul tavolo 750 miliardi, poi in realtà saranno 600, ma un terzo di questi 600 sono soldi europei destinati all’Italia. L’Europa ripartirà o non ripartirà se l’Italia sarà capace di spendere bene o meno questi 200 miliardi tra grants e prestiti a tassi di favore. Per l’Italia non è neppure finita, perché all’assegno europeo condizionato del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) si aggiungono un’altra trentina di miliardi che ci abbiamo messo noi con il bilancio pubblico e un’altra quarantina di miliardi del fondo di sviluppo e coesione europeo. Sono veramente tanti soldi. Fanno quasi paura. Delimitano al millesimo l’ultima grande occasione che l’Italia ha per uscire dal fossato della ventennale crescita zero simboleggiata dal federalismo regionalista della irresponsabilità.

Ecco perché bisogna che tutti – governo, regioni, imprese, sindacato – abbiano almeno l’umiltà e la capacità di comprendere che è necessario avere un approccio sistemico che guidi a livello centrale il processo operativo della spesa pubblica produttiva italiana. O siamo capaci di aiutarci reciprocamente per fare funzionare questa attività o siamo spacciati. Siamo chiamati a giocare una partita che è quella dei fondi strutturali europei di sempre all’ennesima potenza. Dovremo fare in due anni quello che in sei sette anni non siamo stati capaci di fare mai.

Bisogna che Presidenti di Regioni, massimi responsabili del disastro italiano, e sindaci grandi e piccoli capiscano che ognuno deve svolgere il suo ruolo, non quello degli altri. Bisogna che i ministeri facciano i conti con le loro vistose inadeguatezze che si traducono nelle sistemiche inadempienze che rischiano di fare saltare l’intero processo. Bisogna che tutti si rendano conto di quali sono le responsabilità di tutti.

Le amministrazioni degli enti locali del Sud che sanno di non avere mezzi e uomini devono chiedere aiuto. Devono farlo subito rivolgendosi alla Cassa depositi e prestiti perché da soli non ce la possono fare. Servono interventi qualificati per evitare che ci si metta troppo tempo o tutti facciano a vuoto la stessa cosa. Il monitoraggio è cruciale per dare conto dei risultati intermedi e informare puntualmente di questo Bruxelles. A nostro avviso, però, tutto ciò potrebbe non bastare. Ci vuole un team a livello centrale che fa solo questo e deve farlo in modo ordinato facendo i conti con un’attività strutturalmente frenetica e potendo fare affidamento sulla collaborazione di tutti quelli che sono chiamati a prendere decisioni.

Questo processo di rinnovamento dell’amministrazione del centro e di centralizzazione produttiva della spesa deve avvenire di pari passo con un’effervescenza di risposta privata che va facilitata e incoraggiata in tutte le sue espressioni. Sarà arido, sarà banale, come ha detto a braccio Draghi davanti alla platea degli imprenditori, ma se la macchina non gira si ferma tutto. Come sempre il suo pragmatismo centra il problema e ci ricorda che lui non ha la bacchetta magica. Ognuno faccia il suo. Se ne esce solo così.


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