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I banchi del Governo nell'aula del Senato

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Questo Paese ha bisogno di una rivoluzione. Il Recovery Fund è vincolato alle riforme perché sole le riforme permettono di spendere oggi i soldi che hai e di attrarre domani risorse che potresti non avere più. Solo così il Recovery Plan può trasformarsi in un volano dell’economia.

Altrimenti rischia di essere l’ennesimo fuoco di paglia e di non incidere sul problema strutturale italiano che è quello di due Paesi chiamati Italia. Il primo con un tasso di disoccupazione corretto del 27,6% e il secondo del 9,1%.

Abbiamo un’occasione irripetibile, finanziata con debito comune europeo, per non ripetere l’errore strategico compiuto negli ultimi venti anni. Che è stato quello di una colossale redistribuzione a favore dei ricchi sottraendo risorse dovute per la spesa sociale e infrastrutturale al Mezzogiorno e regalando spesa buona e (molto) assistenziale alle Regioni del Nord.

Abbiamo ridotto il reddito pro capite di venti milioni di persone a poco più della metà degli altri quaranta milioni e abbiamo fatto sparire un pezzo rilevantissimo di mercato interno di consumi per i prodotti del Nord che vale di più di quello delle esportazioni.

È sparita altresì una dimensione produttiva nazionale minima per potere continuare a dire la nostra nelle grandi economie del mondo. Risultato: il Nord e il Sud dell’Italia sono gli unici due territori europei a non avere raggiunto i livelli pre-crisi non del Covid 19 ma della prima grande crisi che è quella finanziaria del 2008.

Per queste ragioni abbiamo detto con chiarezza che la stella polare del piano italiano del Recovery Fund devono essere gli investimenti pubblici che incidono direttamente sul denominatore della crescita e non gli incentivi che producono effetti minori e incerti. Soprattutto, abbiamo detto con chiarezza che in tutte le missioni del piano italiano la priorità va al Mezzogiorno che con i suoi tassi di disoccupazione e di inversione del Prodotto interno lordo (Pil) ha consentito all’Italia di essere il primo beneficiario in Europa a partire dal fondo perduto.

Siamo contenti che il commissario europeo per l’economia Gentiloni abbia battuto proprio ieri sul tasto degli investimenti pubblici che debbono nettamente prevalere sugli incentivi. Se il presidente Conte sposa questa sfida e la affronta a viso aperto in Parlamento può uscire dall’angolo in cui lo ha sbattuto Renzi e salvare sé stesso e il Paese. Bisogna, però, che a scelte così chiare di sviluppo si affianchino subito almeno due riforme esecutive.

La prima è la centralizzazione della gestione dei fondi comunitari per sottrarli ai progetti clientelari delle Regioni e per recuperare una interlocuzione unica e stabile nel rapporto con i funzionari della Commissione europea come fu ai tempi della Cassa di Pescatore nella stagione del miracolo economico italiano e del prestito Marshall.

Bisogna essere in grado di fare buoni progetti e di attuarli nei tempi prestabiliti e bisogna sapere coniugare insieme sui progetti le risorse del Next Generation Eu e quelle dei fondi di coesione. Un assetto di comando frazionato in venti staterelli e in venti burocrazie è incompatibile con il raggiungimento dell’obiettivo.

La seconda riforma riguarda la pubblica amministrazione con l’innesto di persone di qualità che affianchino quelli bravi che ci sono e che vanno motivati. Si deve procedere con la logica dei team dove agli uomini di legge, che abbondano, vanno affiancati ingegneri gestionali, semplificatori, informatici, uomini di finanza. Si devono abolire i tetti alle retribuzioni perché le responsabilità e le competenze vanno pagate per quello che valgono.

Bisogna mettere un’attenzione particolare perché tali team prendano in mano le amministrazioni pubbliche del Mezzogiorno più malandato. Questo duplice pacchetto di interventi complessi è il minimo vitale perché non si perdano le risorse messe a disposizione con il debito comune europeo e si cominci a rimettere in moto il Paese evitando che deflagri la grande crisi sociale trasformandosi in crisi finanziaria.

Poi, bisognerà fare cose ancora più impegnative come la riforma dello Stato a partire dalla modifica del titolo quinto, il ridimensionamento brutale del ruolo delle Regioni e la nazionalizzazione del servizio sanitario. Bisogna tutelare i valori della Costituzione, ma modernizzare e semplificare l’amministrazione perché quei valori si preservino adeguandosi ai tempi.

Se questo Governo con questa squadra di ministri sia in grado di attuare un processo riformatore così complesso, non lo so, nutro più di un dubbio. Se nel frattempo riesce a privilegiare gli investimenti pubblici e a dotarsi di una macchina esecutiva capace di ideare e realizzare i progetti di sviluppo a partire dal Mezzogiorno, avrà ridotto gli effetti della crisi sociale e impedito all’Italia di cadere nel fosso della crisi finanziaria.

Nessuna persona di buon senso può augurare il contrario e ritenere che conseguire questo obiettivo sia una passeggiata. Perché non è così e perché di cose semplici nel nuovo ’29 mondiale non ce ne sono.


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