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Quarant’anni fa l’emergenza terribile di quei novanta secondi che cambiarono l’Irpinia e il Paese con il suo carico di quasi tremila morti e interi paesi rasi al suolo. Si allargarono i confini del terremoto e arrivò l’economia della catastrofe con scandali e ruberie. Dal cratere irpino, però, è nata la prima protezione civile d’Europa. Si è costruito ex novo un tessuto agroindustriale e di eccellenze della manifattura, un contesto abitativo e infrastrutturale che chiede solo di essere collegato alle grandi direttrici con un progetto unico e uomini come Pescatore capaci di realizzarlo. Uscendo così dalla spirale dei miopi egoismi si arriverebbe a capire che l’Irpinia, il Sannio, il sistema Matera e Potenza sono l’osso e la polpa di quelle aree interne di cui il Paese intero ha bisogno per tornare a livelli di crescita significativi

Manlio Rossi-Doria è stato per lo sviluppo agrario del Mezzogiorno ciò che è stato Pasquale Saraceno per lo sviluppo dell’industria. In mezzo ai due Grandi della questione meridionale c’è un cassiere molto speciale che si chiama Gabriele Pescatore senza il quale non ci sarebbero stati il centro agrario di Portici voluto da Rossi-Doria né quelle infrastrutture di base che hanno permesso al Mezzogiorno industriale caro a Saraceno di fare la sua parte nell’unico vero, grande, miracolo economico italiano.

Ho pensato a Manlio Rossi-Doria in questa domenica che arriva quarant’anni dopo il terremoto dell’Irpinia del 23 novembre del 1980. Perché quei novanta secondi che cambiarono l’Irpinia e il Paese con il suo carico di quasi tremila morti e interi paesi rasi al suolo appartiene alla storia di un Sud dell’osso a lui più caro che a chiunque altro. Quei novanta secondi non non sono mai usciti da dentro di me e mi restituiscono le facce, la forza rocciosa di donne e uomini, gli abitati, le case, i ruderi di un Sud fatto di pietra, acqua e vento, appunto il Sud dell’osso, immerso in un’oasi naturalistica che diventa un paesaggio con rovine. Questo è il cratere dell’Irpinia che si congiunge a quello della provincia di Salerno e della Basilicata colpito da una sciagura inferta da una mano spietata. Che ha distrutto in un lampo qualcosa come ottantamila case.

Manlio Rossi-Doria ha amato sempre il Sud dell’osso e volle lì con sé in quella terra devastata la grande famiglia degli economisti agrari, i Marenco, i De Benedictis, i De Angelis, i Cosentino, i De Stefano, i Fabiani, economisti del valore di Giannola, e pochi altri, perché voleva che fosse chiaro a tutti che in quella terra la rinascita doveva essere nel segno dell’agricoltura e dell’industria insieme e della sua ripopolazione fatta di emigrati che tornano a casa.

Chi ha partecipato a questi incontri mi ha sempre raccontato che traspariva nelle parole e nei gesti di Rossi-Doria lo stesso entusiasmo con cui di ritorno dagli studi americani al Massachusetts Institute of Technology (Mit) diceva al suo finanziatore Pescatore: “non hanno cultura ma sanno fare le cose”, “noi dobbiamo con i nostri valori ripetere quel metodo” e “dobbiamo saperlo fare al centro agrario di Portici perché il Mezzogiorno deve essere il motore della rivoluzione agricola e dell’industria a essa collegata”.

Per Manlio Rossi-Doria la rivoluzione agricola del Mezzogiorno doveva partire dalle macerie del terremoto perché in Irpinia e in Basilicata, a questa terra in particolare era molto affezionato, c’erano a suo avviso la determinazione cocciuta delle donne e degli uomini del Sud di dentro moltiplicata dalla voglia di riscatto e un contesto ambientale favorevole.

Non voglio qui ripetervi tutto quello che vi diranno tutti. Che passata l’emozione il terremoto cambiò i suoi confini territoriali. Si allargò dalla faglia originaria di 35 chilometri e ottantamila case distrutte in quella terra interna di confine (Irpinia, Salerno, Matera, Potenza) e da un pezzo di Napoli (52 morti) all’intera Campania e poi a pezzi sempre più vasti del Mezzogiorno e fuori del Mezzogiorno. Arrivarono l’economia della catastrofe e un piano di ventimila alloggi a Napoli che fecero piovere decine di miliardi e non si videro le case. Arrivò il partito della spesa pubblica di Napoli e di Caserta e i suoi diffusi imitatori e se ne pagano ancora oggi le conseguenze.

Non fu così in Basilicata e in Irpinia dove gli emigrati, non tutti, sono ritornati. Ricordiamoci, però, che quei paesi rasi al suolo sono rinati con molto verde, case nuove e ordinate e, pur tra errori e ruberie, in quel Sud dell’osso caro a Rossi-Doria sono arrivati pezzi dell’agroindustria di qualità e altri pezzi di impresa di qualità. Ha preso corpo un tessuto abitativo dove acqua, ambiente sano, agricoltura e industria pulita convivono naturalmente circondati da un contesto completamente rinnovato di strade e assi viari. Da quell’emergenza terribile, dopo le macerie della natura e dell’uomo e il grido di dolore di Pertini “occupiamoci dei vivi, fate presto” perché i soccorsi non arrivavano, è nata la prima protezione civile di Europa. Si è costruito ex novo un tessuto agroindustriale e di eccellenze della manifattura. Si è ricostruito un contesto abitativo e infrastrutturale che chiede solo di essere collegato alle grandi direttrici. Se per una volta in questo Paese si uscisse dalla spirale dei miopi egoismi si arriverebbe a capire che l’Irpinia, il Sannio, il sistema Matera e Potenza con i loro punti di forza e di debolezza sono l’osso e la polpa di quelle aree interne di cui il Paese intero ha bisogno per tornare a livelli di crescita significativi.

Per questo l’emergenza pandemica che viviamo oggi e che in economia ha le sembianze del nuovo ’29 mondiale ci obbliga a fare scelte radicalmente diverse da quelle compiute nell’ultimo ventennio. La priorità deve essere un grande progetto di sviluppo infrastrutturale e di zone economiche speciali che colleghino Napoli, Bari, Taranto, Gioia Tauro e Pozzallo attraverso linee di alta capacità e velocità ferroviarie e una rete di banda larga ultra veloce che copra anche l’ultimo paesino come è avvenuto con la nazionalizzazione elettrica nel primo centrosinistra.

Questa è la sfida di oggi del Paese, il resto sono chiacchiere pelose. Si smetta di fare debito per non fare nulla e si pensi piuttosto a richiamare in casa in tempi strettissimi il nuovo Pescatore (esiste) e si costruisca intorno a lui una struttura snella di ingegneri (oggi servono anche informatici e uomini di legge) come quella di allora che si guadagnò una copertina dell’Economist perché era la lepre nell’utilizzo dei fondi comunitari. All’epoca eravamo i primi ora siamo gli ultimi. Questa è la ricostruzione mentale che dobbiamo fare noi. Nessuno può farla al nostro posto. Non aiutano annunci e parole in libertà.


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