Lavoratori in un'azienda
4 minuti per la letturaIl problema principale dell’industria italiana è una quantità straordinaria di piccole e piccolissime imprese con una produttività straordinariamente bassa e una difficoltà di accesso al credito che si accentua in misura abnorme nel Mezzogiorno. Perché le Italie sono due, a volte tre, e ogni volta che pensiamo a questo o quel provvedimento di politica economica dovremmo tenerlo a mente, ma ce ne guardiamo bene dal farlo. Abbiamo rovinosamente perso le grandi imprese delle grandi famiglie del capitalismo italiano.
Solo per fare qualche esempio. La Montedison è diventata una cosa più piccola. Si chiama Edison e è di proprietà francese. Lucchini non ha avuto eredi all’altezza, l’Italcementi dei Pesenti è diventata tedesca. La Pirelli ha un manager azionista di assoluto valore, Marco Tronchetti Provera, ma è passata prima in mani russe poi cinesi, non è più della famiglia Pirelli. L’Olivetti solo l’Ingegnere De Benedetti è convinto di averla salvata, ma in realtà non è diventata nemmeno un’altra cosa, è una scatola vuota dentro quel guazzabuglio franco-italo-americano che è Tim. La media impresa italiana resta il punto di forza del nostro sistema produttivo perché incarna un modello di multinazionali tascabili o di nicchia che hanno primati mondiali veri e li consolidano sempre di più ogni volta che la famiglia riesce a dotarsi di una linea completa di management che ha il massimo possibile di controllo strategico, commerciale e operativo della società. In questo caso si può uscire dalla nicchia, si lavora a reti globali integrate, si allargano i primati e la dimensione complessiva.
Ogni volta invece che il padrone e i suoi eredi, più o meno litigiosi tra di loro, preservano fette sempre larghe di comando operativo uscendo dall’orbita dei diritti-doveri dell’azionista, le cose vanno quasi sempre peggio. I primati nel lungo termine scricchiolano. Se tutto va bene si tiene botta.
Il turismo italiano dei mille campanili, pre Covid e post Covid, riflette lo spirito di iniziativa che è un unicum assoluto italiano, ma anche a confronto con il modello spagnolo e portoghese, a volte addirittura greco, risulta quasi sempre relativamente meno dotato di un assetto manageriale che tesorizzi il capitale creativo della famiglia e non può godere dei benefici di un’offerta turistica nazionale strutturata che offra il pacchetto Italia nel mondo e attragga il turismo più redditizio che è quello stanziale. Fanno eccezione in casa nostra le public company nate dal processo di privatizzazione delle società a capitale pubblico di mercato ex Partecipazioni Statali, che non a caso sono la nostra ragione di sopravvivenza nel Club dei Grandi del mondo, ma il sistema Italia nel suo complesso paga il conto di avere meno laureati e di avere investito meno degli altri nelle nostre università e, ancora di più, di una forzata debolezza manageriale che è figlia di un modo di fare impresa che non riconosce a una dirigenza competente di impronta globale il ruolo e i poteri obbligatori in ogni azienda, di qualsivoglia dimensione, se intende competere a armi pari nel mondo.
Questa, a volte della assenza a volte della debolezza di un ruolo manageriale nelle imprese, è una caratteristica negativa tutta italiana. Perfino in Grecia che partono da un ritardo abnorme hanno capito che il manager è cruciale perché il cambiamento va governato e il capitale umano si muove con le tre leve della istruzione, della educazione e della formazione.
Scontiamo come Paese un ritardo molto grande su tutte e tre le componenti del soggetto europeo innovazione: ambientale, educazione/istruzione e, infine, conoscenza. Siamo spettatori degli eventi e non contribuiamo a determinarli perché non investiamo nella risorsa umana, sprechiamo il capitale più prezioso, e per queste fondamentali ragioni non siamo in grado di esprimere una governance che funzioni nello Stato e un management globale di comando nel sistema produttivo. Poche voci inascoltate come quelle del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, battono ossessivamente su questo tema. Faremmo bene ad ascoltarlo. Soprattutto faremmo bene a investire in capitale umano nel Mezzogiorno. Perché è qui che più che altrove si spreca il talento. Perché qui più che altrove la convivenza con un contesto di degrado ambientale riduce il livello delle aspettative individuali e condanna al declino l’intero Paese. Dobbiamo uscire dalla spirale perversa del “meno ho meno voglio” e dobbiamo farlo presto e insieme. Non sa come farcelo capire, ma l’Europa ci chiede essenzialmente solo questo.
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