La sede di Cassa Depositi e Prestiti
5 minuti per la letturaSiamo al bivio della storia ma in troppi fanno finta di non capire e perdono tempo con i giochetti di sempre. Non sono bastate due grandi crisi internazionali con danni superiori a una terza guerra mondiale persa. Continuiamo a occuparci di seggiole, poltrone, poltroncine e poteri. Al Paese serve una società pubblica con la Cdp come azionista di maggioranza, poi tutti gli altri con pari diritti e una governance indipendente. Perché si possa fare il massimo degli investimenti pubblici e si porti la fibra anche nel più sperduto Comune del Mezzogiorno
Evitate per piacere il solito pasticcio all’italiana. Non se ne può proprio più perché siamo al punto finale della storia e in troppi continuano a girarsi dall’altra parte. Fanno finta di non capire e perdono tempo con i giochetti di sempre. Per noi al Paese serve una società pubblica con la Cdp come azionista di maggioranza, poi tutti gli altri con pari diritti e una governance indipendente.
Perché esattamente come è avvenuto con Terna e con Snam per le reti elettriche e del gas, si possa fare il massimo degli investimenti pubblici e si porti la fibra che è la rete del futuro anche nel più sperduto Comune del Mezzogiorno. Siamo al bivio della storia. Si tratta di ripetere la scelta strategica della nazionalizzazione elettrica del primo centrosinistra che portò la rete elettrica nel Mezzogiorno – altrimenti non ci sarebbe mai arrivata – e consentì così la stagione della grande chimica e della grande siderurgia con le due Italie riunite. Oggi si tratta di ripetere con maggiore urgenza e maggiore impegno la scelta di allora per rendere possibile la piattaforma euromediterranea della grande logistica e della grande portualità, mettere in rete le eccellenze universitarie dell’intelligenza artificiale (sono a Cosenza, non a Milano) e l’industria innovativa che c’è e quella che si sarà in grado di attrarre, favorire il turismo stanziale e così via. Solo in questo modo si può dare all’Italia l’unica speranza concreta per imboccare l’unica strada possibile che il Paese ha di tornare a crescere a livelli sostenuti. Ogni ripetizione è voluta.
Assistiamo invece a un dibattito politico-capitalistico italiano logoro, ripetitivo, fuori dalla storia. Diciamo le cose come stanno: questa situazione ha davvero stufato. Non ci sono bastate due grandi crisi internazionali con danni superiori a quelli di una terza guerra mondiale persa. Continuiamo a occuparci di seggiole, poltrone, poltroncine e poteri: 50 più 1 a Tim ma deve cedere la governance e poi a farlo scendere ci penserà l’antitrust; no, Tim deve essere azionista di maggioranza e avere il comando, gli altri vengono dopo o vengono insieme ma fanno quello che vogliamo noi. Oppure: vediamoci, riparliamone… direi basta, che dite? Gli investimenti servono da ieri e i soldi ci saranno da domani solo se smetteremo di litigare.
C’è o non c’è, mi chiedo, la consapevolezza che siamo alla vigilia della Grande Depressione e, cioè, di qualcosa che può sancire l’uscita dell’Italia dal novero dei Paesi industrializzati senza più possibilità di ritorno? Qualunque compromesso si raggiunga avrà un risultato certo: il taglio degli investimenti al Sud e nuovi tentativi di suicidio dell’economia italiana che continuano con una determinazione tale da fare prevedere la sua rapidissima estinzione. Per carità di patria: è possibile capire dove si vuole arrivare?
Abbiamo documentato con l’avallo delle principali istituzioni economiche, contabili e statistiche della Repubblica italiana che ogni anno vengono sottratte alla popolazione meridionale decine di miliardi di spesa sociale e che la spesa per investimenti è stata addirittura azzerata. Con quei soldi si è rubato lo sviluppo al Sud e si è fatto assistenzialismo al Nord per cui ci troviamo con una parte dell’Italia che va male e l’altra che va malissimo e viaggia verso il sottosviluppo. Si è ridotto per questa strada il reddito pro capite delle popolazioni meridionali alla metà degli altri due terzi e si è privato il Nord del suo primo mercato di “esportazioni” e di una dimensione di impresa nazionale decente colpendo strutturalmente al cuore il sistema produttivo italiano nel suo complesso.
Si continua a non capire e senza alcun rossore si continua come se nulla fosse a parlare di vento del Nord e di questione settentrionale. Come se non fosse chiaro a tutti che l’economia italiana è bloccata dall’indebito privilegio del cittadino emiliano-romagnolo che prende tre volte di più di quello campano per la spesa infrastrutturale e che il Nord estrae dal Sud le risorse pubbliche per le scuole, i suoi ospedali privati e i suoi treni veloci. Allora, visto che le cose stanno così, per farci capire ancora meglio, prendiamo l’impegno di elaborare un nuovo indicatore che sostituisca il prodotto interno lordo (Pil) e misuri con maggiore incisività il divario tra Nord e Sud sorretti dalla insuperabile competenza di Ercole Incalza e di uomini altrettanto competenti delle istituzioni europee. Questo giornale che ha denunciato per primo, in assoluta solitudine, lo scippo annuo di spesa pubblica lorda da 60 miliardi andrà ora a calcolare il “costo pro capite che ogni cittadino sostiene per ‘muoversi’ all’interno dell’urbano e all’interno del Paese e il costo delle merci consumate in base alla propria ubicazione residenziale”. Possiamo solo anticiparvi che lo chiameremo CPCM e che produce risultati illuminanti: i divari abnormi rilevati oggi dal Pil sono niente di fronte alla esplosiva e sconcertante distanza che il nuovo indicatore misura tra il Sud ed il Nord del Paese. Non basterà fare come hanno fatto in tempo utile gli spagnoli. Hanno portato la fibra in tutte le case e hanno fatto l’Alta velocità ferroviaria partendo dal Sud, non dal Nord.
Se l’Italia si vuole salvare si utilizzino tutte (dico tutte) le risorse del Recovery Fund per fare infrastrutture stradali, portuali, retroportuali, ferroviarie e digitali nel Mezzogiorno. Si facciano riforme strutturali vere come giustizia e semplificazioni, si affidi a una persona capace da Roma la macchina della spesa per gli investimenti pubblici e la si smetta con gli equilibrismi finanziari e i giochetti di potere di uomini piccoli e grandi.
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Infrastrutture strategiche: Grande Piano Pluriennale di Alloggi Pubblici di Qualità
Tutto condivisibile, ma – mi ripeto anch’io – prima dei telefoni e dei treni, ecc., viene la casa. Le famiglie in casa di proprietà non sono né il 90 né l’80% – come in generale si sostiene – ma il 72% di quelle censite dall’ISTAT/EUROSTAT ed in alcune Regioni (come la Campania) intorno al 60%. E gli alloggi pubblici popolari (cat. A4) e ultrapopolari (cat. A5) censiti dall’Agenzia delle Entrate nel 2018, spesso fatiscenti, sono appena 526.699 unità, pari all’1,5 per cento del totale di 35 milioni di immobili residenziali, contro il 10, 20, 30 per cento di altri Paesi UE (al 1° posto c’è l’Olanda col 32%, poi l’Austria col 23%, la Danimarca col 20%, la Francia col 16%); negli altri Paesi europei, infatti, vengono costruiti molti più alloggi popolari, per calmierare i prezzi degli affitti e tutelare i ceti più poveri. Il numero delle case popolari e ultrapopolari è diminuito rispetto a quindici anni fa, a seguito della loro vendita (privatizzazioni). Il divario con gli altri Paesi UE risulta ancora più marcato in termini di spesa per l’housing sociale, con un rapporto spesa/Pil dell’Italia pari (2005 e 2009) ad un misero 0,02%, contro una media dello 0,57% UE27. Poi ci si scandalizza della guerra tra poveri dell’occupazione abusiva delle case popolari, mentre bisognerebbe scandalizzarsi per l’estrema penuria di alloggi pubblici e sollecitare vigorosamente un corposo piano pluriennale di case popolari. Pertanto, l’obiettivo prioritario in Italia deve essere un GRANDE PIANO PLURIENNALE DI CASE POPOLARI DI QUALITA’, sulla falsariga del piano Fanfani (all’epoca ministro del Lavoro e della Previdenza sociale), adattato alle esigenze attuali, anche in termini di consumo di suolo, e tenendo conto eventualmente della grande disponibilità di case sfitte o invendute (così si depotenzia la contrarietà della potente lobby delle banche e degli immobiliaristi, oltre che dei proprietari di casa, beneficiari senza alcun merito, da 60 anni, della legislazione urbanistica sul regime dei suoli). Sarebbe un piano, peraltro, in raccordo con le recenti proposte del gruppo di studio di alto livello, presieduto da Romano Prodi, per conto della Commissione Europea. La prima copertura finanziaria (parziale) che mi viene in mente è la reintroduzione della IMU-TASI sulla casa principale (4 mld), in particolare dei ricchi e dei benestanti (2,7 miliardi), resa esente per meri motivi elettoralistici e contro il dettato costituzionale (art. 53), prima da Berlusconi e poi da Renzi (scaricandola sulla fiscalità generale e perciò anche sugli affittuari a basso reddito, ad esempio introducendo la franchigia di 129€ sulla detrazione delle spese sanitarie). Peraltro, pochissimi sanno che, secondo il MEF, il gravame medio annuo dell’IMU sulla casa principale nel 2012 (ultimo anno di applicazione) è stato pari ad appena 225€ e l’85% ha pagato meno di 400€. Con i 4 mld, ipotizzando un costo unitario medio di 100.000€, si potrebbero costruire 40.000 alloggi pubblici di qualità all’anno.