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AVVISO ai naviganti. Non è possibile fare una legge dove è scritto che la crisi economica è vietata per legge. Si possono vietare per un po’ i licenziamenti, ma non si può impedire all’infinito alle aziende che non hanno più commesse di chiudere le loro attività. I consumi sono crollati ai livelli di venticinque anni fa e sono quasi tutti assorbiti dalle cosiddette spese obbligate. In silenzio hanno tirato giù le loro saracinesche per non riaprirle più da un capo all’altro del Paese troppi commercianti e artigiani.

Precipita inascoltato e abbandonato negli abissi della Grande Depressione quel pezzo di economia di mercato del Mezzogiorno che era rimasto comunque in vita nonostante uno Stato che ha fatto figli e figliastri nella spesa per infrastrutture e nella spesa sociale e un accesso al credito di fatto negato.

Diciamo le cose come stanno. La Grande Illusione sovranista italiana che ha costretto il Paese a pagare un conto superiore a quello dei danni prodotti da una terza guerra mondiale persa sull’altare delle due grandi crisi globali – finanziaria e dei debiti sovrani – ha radici uniche nel panorama europeo e mondiale. Sono le radici di un regionalismo predone che ha fatto crescere nei territori padani la mala pianta di un egoismo miope che ha aumentato il peso delle clientele e dell’assistenzialismo in economia mettendo fuori mercato la grande impresa privata e allargando a macchia d’olio la penetrazione della criminalità organizzata e della mafia imprenditrice endogena in settori sempre più vasti come smaltimento rifiuti, movimento terra, sanità, turismo, piccolo e grande commercio.

Questo Paese Arlecchino dei mille conflitti di interessi territoriali non regge più e ci espone al ridicolo. Tutte le potestà legislative sono concorrenti fino alla paralisi. Il ricco è sempre più ricco e il povero sempre più povero, senza rendersi conto il primo che l’eccesso di povertà a cui il suo egoismo condanna il secondo alla lunga farà diventare lui stesso povero. Dai tamponi alle discoteche per prendere la più banale delle decisioni ci vogliono i tempi di una guerra punica moderna. Le decisioni puntualmente impugnate davanti al primo giudice che si incontra per strada arrivano quando metà del disastro è già avvenuto. A fare in modo che anche l’altra metà si realizzi ci pensano strutture amministrative, sanitarie, aeroportuali che non riconoscono l’autorità dello Stato e sono la degna espressione della peggiore burocrazia mondiale che è quella delle Regioni e delle società da esse controllate con primati sorprendentemente irraggiungibili in Lombardia, come dimostrano gli ultimi casi di Orio al Serio e di Malpensa.

Parliamoci chiaro. Un cittadino lombardo riceve come spesa sanitaria pro capite 2533 euro e un cittadino emiliano-romagnolo 2142 contro i 1593 della Campania e i 1701 della Sicilia. Sono i dati del settore pubblico allargato del 2018 elaborati dai conti pubblici territoriali a prezzi costanti del 2015. Con gli stessi indiscutibili criteri sempre pro capite un cittadino emiliano-romagnolo riceve 2069 euro per le reti infrastrutturali, un cittadino lombardo 1946 e un cittadino campano 731. Sono i numeri, una minima parte, del regionalismo predone all’italiana.

Fino a quando il presidente della Conferenza Stato-Regioni, Bonaccini, non risponde in Parlamento di queste vergogne civili, non rimuove tali vincoli che sono macigni sulla competitività del Nord e del Sud del Paese, e soprattutto continua a scappare dal suo dovere costituzionale di varare i fondi di perequazione sociale e infrastrutturale ordinati dalla legge Calderoli del federalismo fiscale del 2009, non potrà mai aspirare alla guida del Partito democratico ma bensì della rediviva Lega secessionista del primo Bossi. Farebbe bene nel frattempo a non chiedere più l’autonomia ma l’indipendenza degli emiliano-romagnoli, come dice lui, magari insieme ai suoi “compagni di merende” lombardi.

Questo sistema perverso e iniquo inizia e conclude il problema competitivo italiano. Perché ha azzerato la spesa per infrastrutture e tagliato brutalmente quella sociale al Sud portando il reddito pro capite dei suoi cittadini alla metà degli altri due terzi del Paese. Perché ha riempito di droga assistenziale il Nord privandolo del suo primo mercato di esportazioni che sono i consumi del Mezzogiorno e ha di fatto convertito all’assistenzialismo e ai vizi della rendita pubblica settori sempre più vasti dell’impresa privata. Che, non a caso, è deceduta alla voce grande impresa, se la passa non bene alla voce media impresa, soffre terribilmente alla voce piccola impresa. Facciamola finita prima che scadano i tempi delle leggi che bloccano i licenziamenti.

Il Nord faccia soffiare il suo vento, ma per chiedere che alla fiscalità di vantaggio nel Sud e al piano di opere infrastrutturali sempre nel Sud – Alta velocità ferroviaria, porti retroporti, Ponte sullo Stretto e rete unica in fibra – si affianchi un massiccio piano di investimenti delocalizzati al Sud da parte di ciò che è sopravvissuto delle imprese del Nord, ugualmente agevolati. Lo si faccia cogliendo con convinzione l’occasione del Recovery Plan e sapendo che si fa oggi quello che si doveva fare almeno venti anni fa. Ci si attrezzi all’istante con una struttura centrale tipo prima Cassa del Mezzogiorno scegliendo per una volta i migliori sul mercato e usando tutti i poteri possibili: straordinari, speciali, commissariali.

L’alternativa è che prosegua il saccheggio interno e si consumi ogni reputazione residua in Europa. In mezzo ci potrebbero essere un bel ricorso alla Corte Costituzionale e una sentenza che obblighi le Regioni del Nord a restituire centinaia di miliardi alle Regioni del Sud.

Noi ci auguriamo che finisca questa sceneggiata di uno Stato diviso in venti Staterelli, dove i governatori degli Staterelli a differenza di quello che avviene in America non tassano e spendono, ma spendono solo. Quasi sempre male e sempre “rubando” ai poveri per favorire i ricchi. Comunque, con soldi non loro.


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