Domenico Arcuri
3 minuti per la letturaHa sbagliato il prezzo. Ha sbagliato a fare l’addizione. Ha confuso il numero di mascherine che servono per un giorno con quelle che servono per un mese. Fa progetti che sono fallimentari già quando vengono concepiti. Si chiama Domenico Arcuri, commissario per l’emergenza sanitaria. È riuscito nel miracolo di fare sparire le mascherine dalle farmacie italiane, lo avevano messo lì per fare l’esatto contrario. Ricordo il colloquio tra un capo azienda e il suo capo acquisti. Il primo chiede al secondo: come è fatto un tavolo? “Beh, mah, mica è il mio mestiere, mica faccio il geometra, ho mille e 200 ordini” dice il Capo acquisti. “No, invece è proprio il suo di mestiere perché se il mercato si mette d’accordo e glielo vende a un prezzo tre volte superiore oppure non glielo vende affatto lei deve avere coscienza tecnica del problema, la paghiamo per questo” dice il Capo azienda. Quel capo acquisti verrà congedato, rispondeva della vendita di qualche tavolino al suo datore di lavoro. Arcuri risponde a tutti gli italiani, non ha coscienza tecnica, e è ancora lì. A noi non serve la conferenza stampa di Arcuri, serve che arrivino le mascherine ma questo è incompatibile con la sua presenza. Perché prima dell’emergenza sanitaria, il Paese paga l’emergenza Arcuri. Per piacere torni nell’ombra dove stava, è meglio per lui e per noi.
Queste poche righe le avevamo scritte quindici giorni fa e nessuno ci ha dato retta. Oggi Domenico Arcuri, commissario per l’emergenza sanitaria e amministratore delegato di Invitalia, è riuscito a fare un altro pezzo di carriera. Ha scalato le classifiche del disastro italiano e è diventato il simbolo riconosciuto del fallimento della macchina pubblica italiana. Se fosse un generale potremmo dire che ha conseguito tutte le stellette e la “greca” della disfatta. Non sapendo, come è a tutti noto, fare di conto è riuscito a lanciare un click day da 50 milioni per finanziare a fondo perduto l’acquisto di dispositivi di sicurezza delle imprese italiane che è andato esaurito in un secondo e quattro centesimi. Hanno tagliato il traguardo 3150 aziende Superman, sono rimaste fuori oltre 200mila imprese. L’ammontare totale delle domande è di 1 miliardo, 207 milioni, 561 mila euro.
Siamo al Gratta e Vinci e alla Riffa della Repubblica italiana nei giorni del Coronavirus, ma ancora prima alla messa in scena del più clamoroso flop day da cui si evince che la situazione è fuori controllo e che, oltre a avere problemi insuperabili con le addizioni, manca proprio la basilare conoscenza della dimensione dell’economia italiana. Non solo non siamo in grado di trasferire la liquidità alle imprese ma addirittura le invitiamo a assumere una squadra di giocatori professionisti di video giochi per avere un contributo sui dispositivi di sicurezza che non avranno mai perché i calcoli so no sbagliati di venti e passa
volte.
La manina del Ministero dell’Economia italiana non manca mai perché sono sempre loro, Gualtieri & C, a scegliere i pezzi più scassati della macchina pubblica italiana (in questo caso Invitalia) e a prendere per i fondelli gli italiani che vivono di lavoro privato e di mercato e, quindi, lottano per la sopravvivenza. Abbiamo i damerini della Sace che spicciano le “pratiche facili” dei prestiti di favore a tutti quelli che avevano problemi seri prima del Coronavirus. Per mettere le mani su questo specialissimo ufficio di Grandi clienti, Tesoro e Esteri chissà perché se le sono date di santa ragione fino a notte tarda. Le impalcature bizantiniane della Cdp anche controvoglia sono chiamate a fare il padroncino di Stato e a allargare il portafoglio dei favori. Sono tutte elucubrazioni della burocrazia del Tesoro della Repubblica italiana che è rimasta in un altro mondo con un ministro, Roberto Gualtieri, che piuttosto di correggere gli errori del “decreto illiquidità” preferisce farsi sfiduciare dagli emendamenti della sua maggioranza che cercano di togliere le imprese dalle grinfie delle burocrazie ministeriali e bancarie. Sopra tutti questi, c’è Arcuri che è figlio di quella cultura del Tesoro superata dai fatti della storia e tollerata da troppi. Una cultura organizzativa e operativa insufficiente in tempi di pace, pericolosissima in tempi di guerra. Abbiamo troppa stima del Presidente Conte per non chiedergli di intervenire. La misura è colma.
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