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Grande bagarre alla diffusione dei dati del rapporto PISA-OCSE che certificherebbero nei ragazzi (sui 15 anni in questo caso) un preoccupante fenomeno di mancanza di comprensione di testi scritti. Uno su quattro avrebbe problemi anche con testi di non elevata complessità, solo uno su venti se la caverebbe con testi complessi. In realtà una lettura a fondo del rapporto ed una comparazione con i dati internazionali porterebbe a conclusioni meno impressionistiche ed allarmistiche di quelle comparse sulla stampa, peraltro ora già sparite dai temi di rilievo, ma il problema non è difendersi dai rilievi e tornare a chiedere che le prove INVALSI vengano eliminate come fanno buona parte degli insegnanti, perché il tema esiste, eccome.
Non occorre usare raffinati strumenti statistici per rendersene conto. Qualsiasi docente universitario è in grado di testimoniare che i ragazzi che gli arrivano in aula e agli esami (non esattamente un campione di immigrati e di ragazzi svantaggiati) hanno grandi difficoltà a cavarsela con i manuali e le informazioni scientifiche, ad organizzarsi per studiare, a mostrare conoscenze che eccedano anche di poco “il programma di esame”. Figurarsi cosa succede quando si scende nella scala di confronto con l’iter di formazione.
La lamentela sui giovani che non leggono i giornali è un mantra, ma perché dovrebbero farlo, visto che li leggono altrettanto poco gli adulti? (vedere il calo delle tirature). I ragazzi leggono pochi libri? Perché i loro genitori, nonni, zii e quant’altro fanno la fila non diciamo in libreria, ma neppure sui siti di vendita on line per comprarsi libri? Romanzi pochi, saggistica pochissima: va un po’ quel che è spinto dalla Tv che spettacolarizza come personaggio qualche autore, il resto è disperso nelle nebbie.
Siccome siamo italiani, siamo bravissimi a dare la colpa di tutto questo alla scuola. Qualche ragione naturalmente c’è: visto che l’istruzione è obbligatoria fino ad un certo livello e che comunque il livello di scolarità anche oltre l’obbligo è molto alto, dovremmo disporre di una platea abbastanza vasta di consumatori di cultura: se il calo riguardasse solo i giovani telefonino e internet dipendenti si potrebbe anche capire, ma i non più giovani?
Allora spostiamo la geremiade su un altro campo. E’ tutta colpa del discredito in cui è caduta la cultura e di conseguenza il possesso di competenze. Vero anche questo, ma basta a spiegare tutto? Forse che nei paesi che stanno un po’ meglio di noi (molto meglio nessuno) la cultura è proclamata con forza come il massimo valore sociale?
Sarebbe meglio ragionare per gradi. Da un lato l’abbassamento della domanda di una informazione che aiuti a capire è stato prodotto da un settore stesso della cultura, quello che nell’illusione di “avere audience” ha trasformato l’informazione nel confronto fra slogan opposti, per non dire di peggio, cioè in vuoto chiacchiericcio fra personaggi da commedia dell’arte. Con questo background è difficile che si sia spinti a documentarsi e a far crescere le proprie capacità critiche: non serve.
Il secondo punto dolente è la scuola. Controcorrente riteniamo che il suo problema non sia la mancanza nella trasmissione di cultura, ma l’aver trasformato questo lavoro in una macchina infernale che allontana i ragazzi dall’amore per il sapere. I mostruosi programmi di insegnamento che gravano sugli insegnanti non lasciano loro spazio per una interazione attiva con i ragazzi. Cosa serve saper parlare con proprietà e scrivere in maniera corretta se non userai mai quegli strumenti? Cosa serve leggere se quel che leggi non ti servirà per farti spazio ed acquisire una qualche autorevolezza già in un dialogo con compagni e insegnanti dentro la scuola? Per raggiungere questi obiettivi un buon insegnante (ce ne sono, anche se non abbastanza) ha bisogno di potersi dedicare al lavoro con gli alunni, a discutere con loro ragionando (correggendoli, non incitandoli a buttare lì qualsiasi cosa passi per la testa), ad approfondire poche cose fondamentali e che poi rimangano nel loro vissuto formativo. Rimpinzarli a forza come oche di un numero stragrande di nozioni, perché così ci si illude di “ampliare la mente” e di essere globali, sarà anche essere al passo coi tempi, ma è cretino: è così che nascono gli analfabeti funzionali, quelli che si appiccano alla mente qualcosa giusto per superare un’interrogazione e un esame con il proposito di dimenticarlo subito perché tanto serve solo a quello (e dopo la scuola si continuerà a fare così).
Facciamo un altro esempio rivelatore e di nuovo lo prendiamo dal mondo universitario, perché se si arriva così al livello superiore, è facile capire che qualcosa non funziona già sotto. Come si sa un problema del nostro sistema editoriale sono le fotocopie. Bene, quando ad uno studente si chiede, magari all’esame, perché porta la fotocopia di un testo anziché il libro regolarmente pubblicato, la risposta è: tanto mi serve solo per l’esame e dopo lo butto, dunque è un peccato farlo con un libro che costa anche un po’ di più. Riflettete su questa spiegazione. D’accordo, c’è anche l’annosa questione di quanto costano i libri, ma non c’è nulla di più farisaico di questo. Ragazzi e famiglie che spendono senza porsi domande cifre assai consistenti per gadget elettronici, capi firmati e quant’altro, guardano con orrore al costo dei libri che è sideralmente lontano da quelle (e ci sarebbe da aggiungere che capi di vestiario e gadget elettronici hanno un valore che nel tempo si deteriora più rapidamente di quello di un buon libro).
Il recupero della capacità di “capire” è essenziale nella vita: non è solo un problema per la democrazia (e già non sarebbe poco), ma anche per le relazioni sociali, assai complicate in quel mondo “globalizzato” che il nostro sistema di istruzione crede di poter mettere a disposizione degli studenti infarcendoli di montagne di nozioni senza preoccuparsi che possano esser “conquistate” dai ragazzi e non semplicemente registrate distrattamente e a forza per l’uso di pochi giorni.
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