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LE COSE camminano sulle gambe degli uomini. Questo Paese di classe dirigente non ne ha due. A malapena ne ha una. Non possiamo continuare con i numeri due, meglio conosciuti come Cfo (dall’inglese Chief financial officer), che vivono incollati all’amministratore delegato e, quasi sempre, ne prendono la poltrona. Sono i capi della finanza, loro si propongono agli azionisti per la nomina a numero uno, ma soprattutto gli azionisti pubblici e privati troppo spesso li accontentano.
Non va proprio bene. Perché una cosa è fare tesoreria aziendale, dialogare con le banche, ristrutturare le posizioni finanziarie, un’altra è avere cultura industriale, concepire un disegno strategico di sviluppo, inventare qualcosa che compete e dura nel tempo, fare infrastrutture che coniugano profitto e sicurezza, conquistare quote di mercato reali in casa e fuori.
Per capirci, questi signori della finanza vedono solo il conto economico, ma il numero che loro vedono e analizzano di per sé non vale niente. Loro, gli uomini che parlano bene in inglese e piacciono tanto alle nuove leve della politica prepotente/incompetente dei nostri giorni, non riescono a capire che dietro quel numero c’è il risultato di un processo. Il capo dell’azienda parte dalla macchina, diciamo dal prodotto, e si interroga sulla sua qualità e sulla sua capacità di essere gradito sul mercato nel breve e lungo termine. Il Cfo parte da quanto costa quella macchina, quanto costa il prodotto, ha in testa un altro numero, i suoi ragionamenti discendono esclusivamente da questo tipo di punto di riferimento che è finanziario. Se la macchina costa dieci, molto probabilmente il Cfo dirà che costa troppo, dirà subito che è meglio non farla. Il manager industriale con le competenze e gli attributi giusti pensa che quella macchina sul mercato si venderà a quindici e che se ne venderanno molte. Il secondo farà la fabbrica con cui produrre quella macchina e assumerà ingegneri, tecnici e maestranze per realizzare il prodotto al meglio. Il primo, al massimo, farà una concessionaria per vendere le macchine prodotte dagli altri, anzi attrezzerà una bacheca internet per lucrare senza costi sulla compravendita di quelle stesse macchine, non utilizzerà nemmeno Amazon perché alla fine di questa perversione si convincerà che costa troppo anche Amazon.
Forse, vi sembrerà strano, ma questo è il vero male italiano e ci fa piacere constatare che non siamo più soli a invocare lo Stato imprenditore e a scandalizzarci per tutti questi interventi di spezzatino e di logica finanziaria fatti da Cassa Depositi e Prestiti.
La lucidità dell’analisi di Giulio Sapelli sul Sole24Ore di ieri ci ha molto confortato sulla qualità del dibattito possibile per uscire dal paradosso di un Paese che, come scriviamo da settimane, è pieno di uomini che fanno la punta alla matita, e fanno la gara a chi la fa più appuntita, ma nessuno di loro sa fare il disegno con questa matita. Abbiamo perso tutte le grandi aziende del capitalismo familiare italiano, abbiamo teorizzato che l’integrazione del Nord dell’Italia con il Nord dell’Europa avrebbe regalato al Paese l’eldorado tedesco e, invece, ha solo prosciugato le risorse pubbliche di investimento destinate al Sud condannandolo a un caduta verticale del reddito. Ha impoverito il Nord dell’Italia che è l’unico territorio europeo con il nostro Mezzogiorno a non avere raggiunto i livelli pre-crisi. Ha sottratto ai prodotti del made in Italy Lombardo-Veneto-Emiliano il suo principale mercato di consumi interno. Siamo diventati tutti più poveri.
La situazione reale di oggi è che il Mezzogiorno è “deceduto” nel silenzio complice di tutti e che il Nord sta “morendo” senza saperlo. Dalle macerie ci si può rialzare solo con investimenti pubblici e “imprenditori pubblici”, un nuovo Stato imprenditore che si ispiri alla stagione dei primati dell’Iri e sia al passo con i tempi nuovi. Il capitale privato (quello buono sopravvissuto) seguirà, può venire dietro, non essere la testa del cambiamento perché non ha le risorse e non è stato all’altezza dei suoi predecessori. Il populismo al governo (cinque stelle) e quello sovranista all’opposizione che spopola nelle piazze e in tv si prendano un lungo periodo di vacanza.
Il Paese ha bisogno di ritrovarsi con quella classe dirigente competente che a malapena ancora c’è. Dobbiamo fare quello che hanno fatto i francesi, i tedeschi e perfino gli spagnoli. L’alta velocità ferroviaria in Spagna è partita da Malaga, Siviglia, Cordova, è partita dal Sud per congiungerlo al Nord, noi abbiamo pensato a scappare da “ricchi” verso quelli più ricchi di noi abbandonando i “poveri” e isolandoli geograficamente su un binario morto. Poi, alla prima crisi tedesca, abbiamo scoperto che i conti dell’Italia non tornano. Sicuramente li avrà fatti qualche Cfo.
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