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Non scherziamo con il fuoco dell’autonomia in salsa federalista e subfornitrice
Abbiamo titolato ieri l’Italia è diventata Sarno (LEGGI). Cadono ponti e viadotti, l’Italia intera è sott’acqua, ma non riusciamo a spendere un euro pubblico per contrastare il dissesto idrogeologico. Nella gestione della rete autostradale affidata a Atlantia, controllata dalla famiglia Benetton, emergono spaccati inquietanti e profili di rischio riguardano altri privati ai quali sono stati ceduti da Atlantia/Autostrade pezzi di rete che richiedono “opere d’arte” rilevanti ovviamente non realizzate. Abbiamo bloccato la macchina degli investimenti pubblici ovunque. Abbiamo sostituito lo Stato imprenditore che ha regalato al Paese per una lunga stagione primati nella grande industria e nei servizi con un capitalismo privato che si dimostra velocissimo nel massimizzare gli utili della rendita ricevuta in concessione e molto restio a impegnare risorse in manutenzione e sicurezza.
La crisi dell’Ilva di Taranto e quella di lunga durata della compagnia di bandiera sono la cifra economica di un Paese terremotato fisicamente e civilmente. I dati della Ragioneria generale dello Stato sui fondi di coesione e sui fondi comunitari destinati a contrastare il dissesto idrogeologico sono impietosi. Si favoleggia di una spesa di competenza di decine e decine di miliardi che è di fatto, appunto, una favola perché si scontra se non altro con gli impegni di finanza pubblica assunti, ma non si riescono neppure a spendere i soldi pubblici messi in bilancio alla voce cassa, quelli cioè che sono immediatamente erogabili. Sono coinvolti amministrazioni centrali e territoriali, soggetti attuatori come Anas, Ferrovie e altri ancora. Il quadro non cambia, l’80% delle risorse resta inutilizzato. Al Sud come al Nord, anzi addirittura i pagamenti passano da un massimo del 24% nei territori meridionali a un minino del 12,6% nei territori settentrionali.
Siamo al punto finale di un processo lungo che ha visto il disimpegno o l’allontanamento di un management pubblico e di uomini di amministrazione al centro e in periferia di assoluto valore. Abbiamo trasformato lo Stato in venti staterelli che si sentono Stato e hanno cominciato a farsi la guerra tra di loro moltiplicando le burocrazie e armandole le une contro le altre. Abbiamo regalato l’impresa pubblica dei primati a un capitalismo privato rapace e ne abbiamo affidato i pezzi sopravvissuti a uomini che fanno la punta alla matita, che fanno a gara a chi la fa più appuntita, ma nessuno di loro ha la matita per disegnare un progetto industriale perché sono tutti uomini di finanza o controller.
Ha ragione Fabrizio Galimberti: ci vogliono investimenti pubblici e “imprenditori pubblici”. Per avere i primi non si deve scherzare con il fuoco dell’Autonomia differenziata che ha senso solo se sana gli squilibri territoriali dalla spesa storica-killer che premia i ricchi e punisce i poveri e che è all’origine della doppia recessione e della guerra tra burocrazie. Per avere i secondi si deve chiedere aiuto ai superstiti avanti negli anni e a una ristretta compagine di uomini di valore più giovani che appartengono alla stessa famiglia in casa e fuori. Non si può continuare a chiedere agli imprenditorini del private equity e ai subfornitori della grande industria tedesca, teorici fallimentari dell’integrazione tra Nord Italia e Nord Europa, quello che non vogliono e non possono dare. Se si continua così non apriremo un cantiere e svenderemo tutto. Realizzeremo il capolavoro del sovranismo italiano e della sua pericolosa declinazione in salsa federalista e subfornitrice. La perdita dell’indipendenza. A comprare quello che avanza di italiano da Francia e Germania, saranno russi e cinesi. Svegliamoci finché siamo in tempo.
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