La frana di Sarno
7 minuti per la letturaOvunque non si spende un euro pubblico per contrastare il dissesto idrogeologico che insieme a Ilva e Alitalia sono la cifra economica di un Paese terremotato fisicamente e civilmente
Oggi Sarno non è più sola. Dopo 250 ore consecutive di pioggia, segnate dal silenzio di tutti, il cinque maggio del 1998 due milioni di metri cubi di terra si staccano dal monte Saro. I fiumi di fango intrappolano case e uomini tra Sarno, Bracigliano, Siano e Quindici, quattro Comuni al confine tra Salerno e Avellino. I morti sono 159, il più piccolo aveva tre anni, il più grande 89. A 72 ore dall’allarme i soccorritori, che fanno ricerca giorno e notte, trovano un ragazzo di 22 anni, Roberto Robustelli, murato vivo in una cantina con fango fino al collo. Si grida al miracolo, forse lo è, di certo è salvo. Poi, di nuovo il silenzio, interrotto solo da accuse (vere) e ingiurie ricorrenti: la mano dell’uomo che devasta il territorio è apparsa sempre più violenta di quella della natura che ha seppellito Sarno.
Sui luoghi del cratere irpino, nei giorni terribili del terremoto del novembre dell’80, arriva in elicottero Sandro Pertini e quando rientra, da uomo delle istituzioni ferito per i ritardi nei soccorsi, dice poche, appassionate, parole rimaste nella memoria collettiva che sono uno sprone per tutti: credetemi, il modo migliore di ricordare i morti, è quello di pensare ai vivi. A Sarno non si levano, quasi vent’anni dopo, le voci degli uomini delle istituzioni, sorvolano tardi in elicottero. Sui muri si respira l’odore della morte, arrivano i volontari e fanno un gran lavoro. Il sentimento di solitudine, di ritardo nei soccorsi e di molto altro, che si “sente” nelle pagine de La Crepa di Lucia Annunziata, sopravvissuto negli anni sempre a tutto e tutti, da qualche giorno non esiste più.
Oggi quella mano privata che devasta e quello Stato inerme, che non c’è mai né prima né dopo, non appartengono più a Sarno ma all’Italia. Ovunque si sono rotti gli argini e, spesso, si è costruito dove non si dovrebbe, si è costruito più di quello che era consentito. Ovunque non si spende un euro pubblico per contrastare il dissesto idrogeologico che, insieme alle questioni irrisolte dell’acciaio di Taranto e della compagnia di bandiera, sono la cifra economica e sociale di un Paese terremotato fisicamente e civilmente. Oggi il 70% delle frane europee è concentrato in Italia, da Sud a Nord, anzi meglio da Nord a Sud. Questo primato può essere considerato anche l’altra faccia del debito pubblico monstre, ma è soprattutto il risultato più evidente della guerra ai competenti da parte di uomini prepotenti, amanti solo del potere personale.
Hanno saputo cavalcare anno dopo anno l’insofferenza montante della popolazione stremata da due Grandi Crisi globali, che hanno prodotto danni superiori a quelli di una terza guerra mondiale persa, e un sentimento misto di invidia sociale e di pulsioni diffuse sovraniste/populiste che hanno spazzato via la classe dirigente dell’impresa pubblica, di cultura industriale, e della macchina amministrativa che insieme hanno dimostrato di costruire da zero e di sapere gestire una potenza economica mondiale quale l’Italia con loro è stata.
Avevamo l’Italstat, leader nel mondo delle grandi opere, e oggi abbiamo 120 mila imprese edili che hanno chiuso. Costruivamo autostrade in tempi record e oggi ne abbiamo affidato il “capitale realizzato” in mano a manager di fiducia di famiglie private che conoscono bene la strada dell’utile ma non vogliono mai imboccare il sentiero degli investimenti. Avevamo la migliore macchina della protezione civile e un giorno qualcuno dovrà spiegarci perché Bertolaso che la impersonifica si è dovuto ritirare a vita privata. Avevamo gli uomini più ambiti nell’amministrazione dello Stato e li abbiamo accompagnati all’uscio per sostituirli con uomini di fiducia di vecchi e nuovi partiti tanto servili quanto incapaci e, spesso, privi addirittura dei fondamentali. Abbiamo affidato per anni e anni la gestione della Cassa Depositi e Prestiti, che custodisce il risparmio postale, a uomini di finanza che non sanno che cosa vuole dire disegnare un progetto industriale e hanno usato l’escamotage del private equity per finanziare imprenditori amici degli amici.
Si è messa su, da dieci anni in qua, una macchina scavatrice del Nord che ha penetrato in profondità la spesa pubblica italiana togliendo 60 miliardi l’anno dovuti alle regioni meridionali per regalarli alle regioni settentrionali e finanziare, molto spesso, non è il caso di Milano capitale del terziario, il peggiore assistenzialismo e le maggiori corruttele senza mai fare opere e distribuendo posti e prebende che hanno assopito lo spirito di iniziativa privata facendoci perdere primati industriali che non riavremo più. Non si sono fatte le infrastrutture di sviluppo al Sud e si è finanziato in modo assistenziale il reddito del Nord cosicché il vizio parassitario si è esteso e siamo sul punto di uscire dal novero dei Paesi industrializzati. Poi, basta con le balle! Abbiamo i soldi di qua, i soldi di là! Dobbiamo solo saperli spendere! Ciò che spettava al Sud è stato sequestrato per pagare l’austerità per tutto il Paese, la cassa integrazione e l’ultima emergenza settentrionale ricorrente. Oggi, come ai tempi dello scippo negli anni della Grande Crisi, vale la cassa e non la competenza. Per questo non ci possiamo più permettere le mancette di “quota 100”, di reddito di cittadinanza e degli 80 euro. Se hanno coraggio e amano davvero questo Paese, Salvini, Di Maio e Renzi – gli ultimi due che sono al governo e il primo che gira l’Italia per dire basta tasse – la smettano di recitare e diano il loro via libera a cancellarli. Mettano politicamente a disposizione i 25/30 miliardi di cassa che congelano per la loro propaganda e si parta così subito con il primo shock di investimenti pubblici che servono come il pane a questo Paese.
Ovviamente tutto ciò non servirà a niente se non si chiederà l’assistenza delle menti industriali sopravvissute di questo Paese. Si scansino come la peste l’esercito di contoterzisti, subfornitori e gli imprenditorini dei soldi pubblici per me e le perdite sulla collettività nonché quella schiera di uomini della finanza con l’aereo da Londra martedì mattina e per Londra giovedì sera. Per una volta si discuta dell’Italia da qui ai prossimi vent’anni e si mettano gli uomini migliori alla testa del processo autorizzativo concentrato a Palazzo Chigi e si faccia capire a tutti che la musica è cambiata. Cassa Depositi e Prestiti, secondo le regole di mercato e senza che a nessuno passi per la testa di fare pubblicizzazioni mascherate, operi con Bei attraverso un Fondo rotativo delle opere pubbliche in cui convergano parte delle rendite che accumulano i concessionari privati (autostrade, ferrovie, metropolitane e così via) di servizi pubblici e si costruisca così la seconda cassa da affiancare a quella che si recupera con la rinuncia alle mancette per volontà della politica (prima cassa). Si usino tutti i poteri di accelerazione e sostitutivi necessari e la classe di governo apra, per la prima volta, un dialogo adulto con il potere giudiziario tale da esaltarne il ruolo e le competenze di indagine e decisorie ma senza bloccare lo sviluppo e la corsa esecutiva della nuova macchina pubblica/privata.
A quest’ultimo proposito, se qualcuno storce il naso in Cdp o altrove, lo si metta prontamente in riga esercitando i diritti dell’azionista e, se ancora mugugna, lo si sostituisca con chi capisce prima e meglio di loro. Con chi ha il bagaglio culturale minimo per rendersi conto che questa (non altre) è la strada complessa dove mercato e politica industriale camminano finalmente insieme e attraverso la quale si moltiplica, in modo duraturo, la capacità di produrre reddito e di evitare la tentazione di qualcuno, fuori dall’Italia, di mettersi a discutere sulla presenza o meno di Cdp nel perimetro del bilancio pubblico. A questo punto, ci sarebbero finalmente le risorse e gli uomini per aprire i cantieri non in televisione ma nei territori dissestati italiani e affrontare da posizioni di forza le questioni vitali della redistribuzione della spesa pubblica tra Nord e Sud per fare quelle infrastrutture di sviluppo che permettono di unificare economicamente il Paese, dell’acciaio e della compagnia di bandiera che sono strategici per assicurare un futuro alla manifattura e al turismo italiani. Se non si vuole diventare ancora di più colonia francese e ragionare in modo dignitoso con l’alleato tedesco e al tavolo del potere in Europa, c’è solo questa strada. Chi prima presenterà il conto agli uomini della doppia morale in politica, nelle imprese e nella finanza, si candida nei fatti a guidare a lungo questo Paese. Soprattutto, lo farà uscire dalla palude dell’emergenza e dell’invidia sociale.
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