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Ho deciso di mettere come editoriale del nostro giornale di ieri l’intervento di Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Perché ho fatto questa scelta? Mi è venuto d’istinto dopo averlo letto perché mi è sembrato evidente che l’uomo che ha salvato l’euro e l’eurozona, il Cavaliere bianco della Grande Crisi, ha voluto parlare direttamente alla nuova generazione di servitori dello Stato e ha voluto mettere il suo patrimonio di esperienze al loro servizio. Parla agli studenti di quella università ma si rivolge ai futuri policy maker con la forza delle cose fatte. La conoscenza, il coraggio e l’umiltà si percepiscono per quello che sono, ma ancora prima per qualcosa che si può toccare, e tutte insieme costituiscono la lezione di vita del futuro. Perché chi parla è un uomo che ha fatto la storia dell’Europa e questo per chi ascolta cambia tutto.
Mi è piaciuto il riferimento al sistema di Bretton Woods che ha stabilizzato l’economia globale dopo la Guerra e che non sarebbe mai nato senza la ricerca empirica condotta da un grande economista, Ragnar Nurkse, e senza l’esperienza e la visione di John Maynard Keynes. C’è in questo passaggio la lezione della sua storia che ci insegna come dietro le decisioni che durano non c’è mai improvvisazione, ma un lavoro duro ben condotto, basato su fatti riscontrati e sull’esperienza accumulata. Dico questo anche perché mi ha fatto tornare alla mente l’ossessione di Carlo Azeglio Ciampi contro l’infezione diffusa dei cattivi derivati e il suo insistere altrettanto ossessivo per una nuova Bretton Woods che ci permettesse di fare i conti come cittadini del mondo con le conseguenze della globalizzazione e come cittadini europei di liberarci per sempre dalla dittatura del marco.
Se ci pensate bene Mario Draghi è stato l’artefice globale che più di tutti ha consentito di vincere queste due partite. Di certo il Cavaliere Bianco della Grande Crisi sovrana. Perché quando pronuncia il discorso a Londra, nel luglio del 2012, e dice le tre celebri parolette whatever it takes (sarà fatto tutto ciò che è necessario per salvaguardare l’euro) e aggiunge “credetemi, sarà abbastanza”, Draghi è completamente solo. Perché Mario Monti difende l’onore dell’Italia e lo difende nelle sedi giuste, e lo fa concependo un’Europa diversa, ma agisce da capo del governo italiano e finisce con il fare arrabbiare la Merkel. Che in quelle settimane ripete ai suoi: di questi italiani, anche dei migliori non ci si può fidare. Nel momento in cui Draghi si assume la responsabilità di parlare, come ha parlato, al mercato è completamente solo.
Ha avuto sempre contro il Governatore della Bundesbank, Weidmann, ha avuto sempre contro un uomo molto competente, il superfalco ministro dell’economia tedesco Schäuble,e non ha neppure più dalla sua la Merkel con la quale ha da sempre un rapporto di stima ricambiato nel rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza dei ruoli. L’atto risolutore della Grande Crisi ha la firma di Mario Draghi e riflette un ragionamento frutto di analisi empiriche e della necessaria dose di coraggio: la Banca Centrale Europea deve cambiare linea, deve adottarne una opposta a quella seguita dal suo predecessore Trichet, deve fare una politica monetaria espansiva. Come ha fatto la Federal Reserve con la prima Grande Crisi, quella finanziaria, deve fare ora la Banca Centrale Europea alle prese con la Grande Crisi Sovrana non per salvare l’Italia o la Spagna, certo salverà entrambe, ma lo deve soprattutto fare per combattere il rischio deflazione e perché a rischiare è l’intera Europa. Il coraggio “americano” di Draghi è quello che spingerà Larry Summers, ex ministro dell’economia degli Stati Uniti, a indicarlo come il più grande banchiere centrale degli ultimi trentacinque anni per avere salvato l’eurozona da solo contro tutti.
Ma perché sia chiaro fino in fondo ciò che ha fatto Draghi e perché ha attuato la profezia di Carlo Azeglio Ciampi bisogna che vi rievochi ciò che mi disse proprio lui nei giorni terribili del Cigno nero italiano dell’autunno del 2011 e che ho ricordato più volte. Andai a casa di Ciampi, volevo capire che fine avremmo fatto, e mi sorprese con queste parole: “Guarda, ti voglio raccontare un colloquio tra me e John Major, cancelliere dello scacchiere della Thatcher, perché è un colloquio importante: ricordo che lui mi diceva: scusi, dottor Ciampi, io proprio non la capisco: lei è il governatore della Banca d’Italia e ha il potere di alzare e abbassare il tasso di sconto, decide lei. Perché è così desideroso di cedere questo potere a un altro? “Sai come gli risposi? Te lo dico subito: ma quale potere? Se mentre noi parliamo esce un flash della Reuters in cui c’è scritto che la Bundesbank ha alzato o abbassato il suo tasso di sconto, può essere certo che nel giro di pochi minuti gran parte delle banche centrali modificheranno il loro tasso di sconto.
Preferisco che il mio pollice si muova non perché un altro ha deciso di premere il pulsante ma perché possa concorrere con gli altri, prima (e non dopo) a decidere se sia giusto o meno premere quel pulsante”. Vuol dire essenzialmente una cosa: è importante capire che non è irrilevante che si possa muovere la leva monetaria sotto la spinta delle esigenze non di una sola economia ma piuttosto tenendo conto delle esigenze dell’economia di tutta l’Europa. Dice queste cose Ciampi perché non ha mai dimenticato quella telefonata terribile di settembre del “signore della Bundesbank”, come diceva lui, la peggiore negli anni lunghissimi da governatore della Banca d’Italia, durante la tempesta perfetta del ’92.
Arriva mentre lui è a palazzo Chigi, proprio nella stanza del presidente del Consiglio, Giuliano Amato, la preoccupazione e l’ansia si tagliano a fette, la lira è sotto attacco e l’Italia rischia la bancarotta. A un certo punto entra il consigliere, Alfonso, che sta nella stanza a fianco, e informa entrambi che il Presidente della Bundesbank, Helmut Schlesinger, vuole parlare al telefono con Ciampi. Esce e torna pallido in viso: ha detto che da lunedì non cambia più lire con marchi. La prima reazione di entrambi è: non ci può fare questo, come è possibile, adesso ci sente, ma poi sono costretti a scoprire che nel 1978 il governatore tedesco di allora, Ottmar Emminger, aveva mandato una lettera riservata al suo governo con la quale la Bundesbank accetta le clausole del sistema monetario ma nei limiti che ciò non metta a repentaglio la stabilità del marco.
Una clausola rimasta segreta fino a quel momento
che preserva lo scettro di re marco dentro lo SME e la dice lunga sul cammino
da fare per costruire la nuova Europa: i tedeschi ritengono che la lira deve
svalutare e ovviamente la lira svaluta. Ciampi non dimenticherà per tutta la
vita la lezione, e da qui nasce la sua voglia di concorrere con gli altri a
premere il pulsante prima non dopo. Quante volte mi ha detto: con l’euro
dobbiamo uscire dalla “dittatura” del marco, l’Europa si deve
riappropriare della leva monetaria.
Mario Draghi ha attuato la profezia di Carlo Azeglio Ciampi perché se andate a
leggere i verbali della Banca Centrale Europea scoprirete che tutte le proposte
del presidente, cioè le sue, tranne quella unanime dell’uscita dal Quantitative
Easing, sono state sempre approvate a maggioranza molto ampia, ma a maggioranza.
Un voto sarà sempre contro: è quello del Governatore della Bundesbank.
Adesso che si è deciso di rifare il Quantitative Easing un terzo dei banchieri centrali capeggiati dall’immancabile Weidmann ha votato contro, ma non è cambiato nulla, la linea di Draghi che esprime la conoscenza e il coraggio che servono è quella che vince. Quindi, è successo esattamente quello che aveva auspicato Ciampi: una banca centrale dove anche l’Italia come tutti i Paesi europei possa concorrere con gli altri a decidere quando e come premere il pulsante.
Mario Draghi ha dimostrato con i fatti che si poteva uscire dalla dittatura del marco. Questa è la bellezza dell’euro e della sua ritrovata popolarità. Custodisce, tra l’altro, la ragione profonda di un pezzo importante della nuova Bretton Woods. Che non scalfisce, anzi esalta la forza costitutiva sua e delle istituzioni finanziarie da essa create, senza le quali cercare di governare le conseguenze della globalizzazione sarebbe impossibile. Ne riannoda il filo della storia e fa i conti con la realtà.
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