Nicola Zingaretti e Luigi Di Maio
4 minuti per la letturaNella nostra sempre più intricata situazione politica si rivela chiaramente la crisi dei partiti, tanto di quelli tradizionali che di quelli nuovi. Per essere tecnici, la crisi riguarda quella che gli studiosi chiamano la “forma partito”, cioè il modo di essere e di concepirsi di un partito politico. Detto in termini semplici, in un partito tendenzialmente convivono due componenti: un certo modo di intendere il mondo, talora formalizzato in una ideologia, e una “macchina politica”, cioè un’organizzazione che consente di gestire le prove elettorali e la selezione del personale da mandare nelle sedi rappresentative. Le due componenti non hanno necessariamente lo stesso grado di intensità: ci sono partiti in cui l’ideologia prevale nettamente sulle esigenze della vita politica concreta, altre in cui le esigenze della “macchina” tendono a mettere fra parentesi i discorsi sul modo di intendere il mondo.
In tutti i sistemi delle democrazie occidentali i partiti sono diventati sempre più “macchine politiche” e il versante ideologico (a volte anche quello ideale) è finito in secondo piano, per non dire è dimenticato in un cassetto.L’Italia ha sperimentato a fondo le trasformazioni dei partiti lasciandosi alle spalle i vecchi partiti storici quelli divisi fra loro da robusti steccati ideologici (che peraltro poi superavano per confrontarsi e dialogare)…
E vedendo nascere nuove formazioni dal profilo ideologico molto approssimativo (poco più che slogan) e dal robusto organizzarsi al loro interno di gruppi di professionisti politici. Qualcuno ricorderà le polemiche sul “partito di plastica” fondato da Berlusconi o sulla “fusione a freddo” fra ex PCI ed ex esponenti della vecchia sinistra dc confluiti nel PD veltroniano. Sembravano fare eccezione i Cinque Stelle, movimento che quanto a confuso profilo ideologico non era secondo a nessuno, ma che presumeva di essere esente (e all’inizio lo era) dalla presenza di professionisti della politica.
Chi ha esultato per il tramonto e la scomparsa delle vecchie tipologie di partito, forse dovrebbe ricredersi oggi di fronte all’impasse di una crisi che stenta a trovare soluzioni convincenti (e chissà se le troverà) proprio per debolezza del sistema di partiti esistente.
Da un lato l’assenza di centrali di elaborazione delle analisi sul mondo, ma soprattutto su problemi italiani letti in un’ottica non contingente rende estremamente arduo qualsiasi confronto sulle cose da fare. Ma ancor di più non dà spazio alla possibilità di veri confronti che possano concludersi con convergenze di posizioni che non siano semplici condivisioni di frasi del tutto generiche.
In conseguenza di questo è venuta meno quella cinghia di trasmissione fra l’ambito strettamente politico e la variegata sfera della società civile. Non ci sono più luoghi in cui si possano abituare i vari ambiti a riflettere insieme su ciò che sarebbe vantaggioso per il paese, non si sa dove e come preparare gradatamente i mutamenti di abitudini e di atteggiamenti verso i problemi che nascono, vengono meno canali multipli e strutturati per far interagire classe politica e varie componenti dell’opinione pubblica, non essendo sufficienti per questo fine né le teatralizzazioni dei talk show e simili, né il confuso universo dei social media.
Per paradossale che possa sembrare, questo stato di cose ha messo in crisi anche le “macchine politiche”. Il loro scopo era, almeno in teoria, quello di lavorare per organizzare la raccolta del consenso, elettorale e non, e per far questo di offrire al paese una selezione di classe politica in grado di presentare forti caratteristiche di affidabilità. A questo fine dovevano prescindere dal pescare all’interno delle burocrazie di partito: a volte le personalità giuste potevano trovarsi lì, ma altrettanto spesso andavano reclutate all’esterno, perché proprio questa abilità nello scovare le persone giuste per i posti giusti accresceva la credibilità e di conseguenza il potere del partito.
Basta guardarsi in giro per vedere come invece le formazioni che occupano la scena attuale siano per lo più ridotte a macchine che producono propaganda e che lo fanno per promuovere le donne e gli uomini che siedono nelle loro strutture. Pescare fuori di queste lo si fa raramente, quando proprio si è obbligati dall’esterno (gli uomini del Presidente, per esempio) o quando si corre poco rischio perché per la verità i prescelti sono dei cooptati pronti a farsi integrare nella macchina.
Il discorso che abbiamo fatto potrebbe sembrare puramente accademico se non avessimo davanti il film dello svolgersi della crisi attuale, dove i partiti rimangono vittime dell’assenza di una interlocuzione stabile con i retroterra della società e le loro proposte di classe di governo rispondono largamente alla logica di promuovere i loro capi o capetti. Qualsiasi proposta di sguardi più ampi nella considerazione dei problemi, o di spazi da aprire per l’innesto di forze qualificate e affidabili da trovare fuori dei circuiti dei partiti regge, se va bene, lo spazio di un mattino. Al massimo ci si spinge a travestire come rispondenti a queste necessità soluzioni che rimangono strettamente nelle logiche usuali.
La nostra crisi politica non è congiunturale, ma in buona parte strutturale e di essa fa parte la scarsa adeguatezza dei partiti ai tempi nuovi. È quanto stiamo già pagando, pur auspicando che il prezzo sul momento sia sopportabile e che per il prossimo futuro si possa sperare di prender seriamente in mano il problema.
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