Luigi Di Maio
6 minuti per la letturaSiamo alle solite. I ricchi fiutano la serietà della crisi internazionale e si pongono responsabilmente il tema di affidare la guida del Paese a un timoniere riconosciuto e apprezzato nel mondo? No, assolutamente. Loro hanno solo una gran voglia di stare con i ricchi e che i poveri vadano al diavolo.
I ricchi vogliono stare con i ricchi e creare un fossato tra loro e i poveri, ne temono quasi il contagio, la sola enunciazione del problema disturba. Noi stacchiamoci – è il succo del ragionamento – e loro precipitino da soli, se la cavino da soli, noi ci teniamo stretto il bottino che abbiamo sottratto ai poveri da dieci anni in qua, con il trucco della spesa storica, e tiriamo avanti. I poveri saranno ancora più poveri? Il Paese non esisterà più? Perderemo un altro pezzo di mercato interno? Chissenefrega!
Questa folle e pericolosissima crisi di ferragosto non finisce di stupirci. La classe dirigente del Nord del Movimento 5 Stelle, che ha nei suoi cromosomi il disegno secessionista di Gianroberto Casaleggio, elabora pensieri egoisti, di corto respiro, che sono quelli del ceto dirigente della Lega di ieri e di oggi. Gli uni e gli altri si vanno sempre più convincendo che la situazione è complicata e che meno vincoli di solidarietà hanno, meglio è.
Non funziona così – le menti più avvedute del Nord ne sono consapevoli, penso alla lucidità del ragionamento del sindaco di Milano Sala – perché i nostri ricchi in realtà diventeranno solo servi di qualcuno più ricco di loro, ma tant’è, il cemento degli affari, il comune linguaggio dell’irrealtà demagogica, la bandiera mai ammainata di un’autonomia differenziata dove il ricco fa la bella vita non con i suoi soldi privati ma con i soldi pubblici indebitamente sottratti ai poveri, li fa ritrovare naturalmente. Magari sottobanco, a carte coperte, attraverso mille giochini.
Questo bieco scambio di interessi anti-Mezzogiorno, e quindi anti-Italia, del partito trasversale secessionista dei ricchi è il più clamoroso impedimento alla costruzione di un governo Pd-5 Stelle che ponga al centro investimenti e Europa nel solco della storia italiana e ha in Luigi Di Maio il più incomprensibile degli alleati. Il più votato del partito che ha raccolto la plebiscitaria rappresentanza dei poveri e ha al Sud il suo granaio elettorale non riesce a fare una sola dichiarazione senza la quale richiamare l’autonomia differenziata come necessaria, anche se mitigata all’acqua di rose con i livelli essenziali di prestazione fatti da chi e quando neppure si sa.
Quale obbligo ha Di Maio, caduto il contratto di governo con la Lega, di chiedere lui quell’autonomia differenziata che costituisce il più scellerato disegno secessionista che la storia politica repubblicana di questo Paese abbia mai conosciuto e che metterebbe in brache di tela la comunità meridionale che a lui si era incautamente affidata e che contro di lui si rivolterebbe con la violenza che solo chi soffre sa riservare ai traditori?
È mai possibile che si arrivi a strumentalizzare la presidenza del Consiglio a Conte (sia chiaro: chi scrive ritiene incomprensibile il veto posto dal Pd di Zingaretti su una persona che ha dimostrato serietà e responsabilità) come condizione irrinunciabile al fine di lasciarsi la porta aperta che permette di uscire dal labirinto nel quale ci si è cacciati da soli e tornare ad abbracciare quei ricchi che, in modo miope, muoiono dalla voglia di fare del Sud un solo boccone? Che cosa c’entra Di Maio con questo disegno secessionista maledetto, strisciante, che frega il Sud e, di fatto, arriva a privarlo non solo della cassa dovuta, ma perfino di una ancorché flebile rappresentanza?
Non crediamo alla fantapolitica, ma la apparente totale irrazionalità di questi comportamenti ci spinge se non altro a riferire scenari da fare accapponare la pelle secondo cui il vero obiettivo sarebbe quello di fare saltare tutto, costringere Mattarella a convocare le elezioni, e portare poi in dote alla Lega, dopo il voto, quel 7/8% di consensi dimaiani che gli resterebbero al Sud per sostituire i voti berlusconiani non graditi. Non c’è posto per gli eletti di Forza Italia nello schieramento sovranista-lepenista (del Nord) di cui Salvini è la testa e il motore e dove i Buffagni e i Paragone, ovviamente la caratura del primo è infinitamente superiore a quella del secondo, simbolo del trasformismo in politica, stanno con i Fontana, gli Zaia e i loro sottopancia, in modo del tutto naturale.
A nulla valgono neppure le oneste parole di Conte da Biarritz, in Francia, dal palcoscenico del G7, che ribadiscono: «La stagione con la Lega è chiusa». Ha ragione Massimo Villone, quando riferendosi a Di Maio, si pone un paio di interrogativi e prova a rispondere: “Che cosa significa «completare il processo»? Riprendere le inaccettabili bozze Stefani, magari con qualche limatura, e portandole a ratifica senza emendamenti? Si impone un ripensamento radicale…. Fontana promuove gli oppositori da “cialtroni” a “sfascisti”. Ma sono medaglie vinte con pieno merito dagli aspiranti secessionisti. Può non interessare che elezioni immediate sarebbero probabilmente rovinose per il Pd, e ancor più per M5S. Ma interessa che un centrodestra a fortissima trazione leghista potrebbe avere i numeri per cambiare la Costituzione, con un premier che ha già chiesto al popolo i pieni poteri. Si impone un salto di qualità.
Basta con la voglia di Zingaretti di riappropriarsi della rappresentanza parlamentare oggi troppo renziana, quella di Renzi di recuperare centralità, o quella di Di Maio di rimanere in gioco. La politica è sempre, inevitabilmente, un mix di miseria e nobiltà. Cerchiamo di non esagerare con la miseria.” Bravo, Villone! Questa folle crisi di ferragosto continua a offrirci spettacoli orribili.
L’Italia tutta, dal Nord al Sud, gode del minimo storico di reputazione, il recupero dello spread è legato proprio a quel ridimensionamento di Salvini che Di Maio sembrerebbe voler evitare, e esprime il massimo di fragilità economica nazionale nel pieno di una crisi globale dagli esiti imprevedibili mascherato in parte dall’ombrello monetario che tutto copre e, ancor più, promette di coprire per il futuro. Sotto l’ombrello, però, c’è un Paese in mano a piccoli capetti del Nord che vogliono continuare a fare scorribande nel bilancio pubblico a spese del Sud.
Quando scopriranno di essere diventati poveri anche loro, sarà troppo tardi. Prima bisogna almeno provare a chiedere alle forze più rappresentative che ci sono in Parlamento, 5 Stelle e Pd, se hanno capito qual è la vera posta in gioco, e se sono disposte a affidare la guida del governo a una figura terza (anche Conte lo è) di respiro internazionale e a nominare una squadra di ministri all’altezza per contare in Europa e fare scelte di politica economica che partano dagli investimenti e dal Sud. Se non ci arrivano da soli, ci pensi la moral suasion di Mattarella a persuaderli. Anche se nessuno lo dice, perché la verità non va più di moda, bisogna salvare l’Italia dal baratro.
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