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Al peggio ci si abitua sempre, ma è sempre troppo tardi quando si decide di reagire. Siamo ultimi in Europa, non era mai successo in nessuno degli anni delle Grandi Crisi, ma almeno si colga questo dato terribile per fare l’unica operazione verità di cui il Paese ha vitale bisogno.
Si dicano due cose, forti e chiare.
La prima: se il Mezzogiorno non esce dalla sua crisi senza freni, l’Italia potrà collezionare anche qualche decimale di crescita ma è destinata (tutta) a spegnersi più o meno lentamente, a uscire dal novero dei Paesi industrializzati.
La seconda: la crisi attuale delle regioni deboli è frutto, in misura significativa, del saccheggio senza precedenti che le regioni forti hanno fatto delle risorse pubbliche sottraendo ai poveri per dare ai ricchi con il giochetto delle tre carte che si chiama spesa storica; si è iniettato così nelle vene del Nord prima il virus malefico dell’assistenzialismo e poi, cosa ancora più grave, direi imperdonabile, quello del malaffare dove il sistema Platì, della famiglia Molluso della ‘Ndrangheta, diventa il sistema Milano con imprenditori e politici addirittura in cabina di regia. Fermiamoci, per favore, un attimo prima del baratro.
Questo giornale ha documentato che da molti anni in qua balla un 6% di trasferimenti di spesa pubblica sottratti al Sud e regalati al Nord per cui se nasci a Reggio Calabria hai diritto in termini pro capite a 18 euro annui per gli asili nido, ma se hai la fortuna di nascere in Brianza ti toccano 3mila euro.
Le percentuali della vergogna sono analoghe anche in termini di sanità, assistenza, classi a tempo pieno e mense scolastiche, ma diventano abnormi in termini di trasporti dove il Paese è spaccato a metà come una mela e si condannano territori interi all’isolamento geografico e, quindi, all’impoverimento. Al di là dell’evidente furto di Stato, di cui gli enti locali profittatori del Nord dovranno rendere conto nelle aule di tribunale per restituire il maltolto, è ormai maturo il tempo perché si prenda coscienza che l’autonomia differenziata è una pagliacciata non più sostenibile né per ragioni etiche né per ragioni economiche.
Il ricco può anche bearsi del suo indebito vantaggio nel breve termine, ma nel lungo termine lui stesso è destinato a indebolirsi brutalmente. Farebbero bene tutti, da Nord a Sud, a fare una riflessione comune sul fallimento delle Regioni e a porsi in modo concludente il tema della redistribuzione delle poche risorse pubbliche disponibili. Lo scandalo della spesa storica e dei suoi giochetti, di impronta Nordista in senso lato, non solo ha contraddetto i principi fondanti della Costituzione, ma ha addirittura violato le regole federali dell’ex ministro leghista Calderoli e della sua legge 42 del 2009. Siamo fuori dalla legalità, ma soprattutto abbiamo operato congiuntamente per abbandonare volontariamente alla deriva il Mezzogiorno e mettere fuori gioco contemporaneamente il Nord produttivo del Paese.
È innegabile che pezzi sempre più diffusi dell’impresa privata settentrionale si sono fatti ammaliare dal nuovo assistenzialismo e hanno saccheggiato le indebite prebende loro assicurate da una classe politica corrotta e in mala fede. Quando il confine etico salta, ci si può ritrovare come è successo ieri a constatare che la direzione strategica della ‘ndrangheta è in quella zona grigia dove imprenditori come Daniele D’Alfonso, figura chiave della nuova tangentopoli milanese, sono il grimaldello che consente alla criminalità organizzata calabrese di farla da padrone proprio in quei flussi di spesa pubblica indebitamente sottratti alle bambine e ai bambini del Sud per ungere con la classe politica compiacente (soprattutto Forza Italia e un po’ Fratelli d’Italia) e nuovi manager facilitatori in un sistema collaudato di potere e di relazioni trasversali.
Antonio Anastasi, da par suo, ha documentato nelle scorse settimane che l’80% del volume d’affari della ‘Ndrangheta (44 miliardi su 55) si realizza nelle regioni del Nord e è molto probabile che, scavando in profondità, emergano nuove e più diffuse connivenze politico-affaristiche. Ce ne è abbastanza per fermarsi un attimo, mi sembra. Ce ne è abbastanza – prima di queste deviazioni patologiche da circoscrivere e recidere, e va lodato il lavoro svolto dalla magistratura inquirente e dalle forze di polizia – per guardare in faccia a quanto di grave e di patologico è avvenuto all’interno del sistema produttivo lombardo fuori dal recinto delle connivenze criminali. Non può esser privo di significato il fatto che nelle prime sei aziende del distretto simbolo della manifattura italiana, Monza e Brianza, ben cinque sono filiali di multinazionali estere e una sola è lombarda ma si occupa di distribuzione commerciale, insomma è un grossista, non produce manifattura. Sono segnali inquietanti.
Le mammelle pubbliche del nuovo assistenzialismo nordista, una cassa di decine di miliardi l’anno rubata alla spesa sociale e agli investimenti infrastrutturali di cui il Sud ha diritto e bisogno, hanno avuto anche l’effetto collaterale di allentare lo spirito imprenditoriale lombardo, la capacità di fare grande ricerca e di conquistare il mondo da primi attori. Ne hanno alterato lo stato di famiglia: da multinazionali player globali a contoterzisti e subfonitori più o meno di qualità, senza perdere il vizietto insopportabile di fare la morale agli altri. Basta, per piacere, è arrivato proprio il momento di chiudere questa stagione dei venti staterelli clientelari e delle loro connivenze affaristiche e criminali. Ce lo impongono l’etica e le ragioni profonde del Paese. Che reclamano una più corretta redistribuzione delle poche risorse disponibili nell’interesse di tutti. Se non si fa questa operazione verità non si riparte mai e, alla lunga, se il Sud non torna a crescere è l’Italia intera a andare a picco.
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