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In crisi il Made in Italy per il settore agroalimentare; il motivo è la concorrenza sleale di cibi che non rispettano gli standard Ue importati a basso costo
A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina. La frase attribuita a Giulio Andreotti sintetizza bene quello che sta accadendo nel settore agroalimentare italiano e che ha scatenato la protesta di due giorni della Coldiretti al Brennero, frontiera simbolo dell’ingresso di prodotti stranieri dove produttori e forze dell’ordine hanno “ispezionato” i Tir in arrivo. Il problema non è il commercio, motore economico del nostro Paese, anche e soprattutto per quanto riguarda cibo e bevande, ma le modalità che regolano i flussi.
L’invasione di prodotti a basso costo soprattutto da Paesi terzi che non rispettano le stringenti regole imposte dall’Italia e dall’Unione europea in termini sanitari, ambientali e di sicurezza del lavoro, è la prima causa del crollo delle quotazioni, ma rappresenta anche un serio rischio per i consumatori. E’ vero che per moltissimi prodotti dall’olio alla pasta, dai formaggi alle carni c’è l’obbligo (solo in Italia però) di indicare in etichetta l’origine della materia prima, ma le frodi sono dietro l’angolo.
Lo dimostrano i risultati dei controlli a tappetto effettuati dall’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (Icqrf), che fa capo al ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, che hanno “stanato” irregolarità sanzionate con 21,4 milioni e sequestri per 42,5 milioni. Vino. Olio, latte e formaggi i più attenzionati, ma anche i più multati e sequestrati per un valore di 22 milioni per il vino e 14,6 milioni per l’olio.
Nonostante le etichette trasparenti (non ancora per tutti) che rappresentano una conquista importante, frutto di una battaglia portata avanti dalla Coldiretti dai primi anni Duemila, la guardia deve rimanere alta, perché con un quantitativo tanto massiccio di acquisti il rischio è elevato. Due numeri che spiegano il problema: 64,2 miliardi il valore dell’export agroalimentare nel 2023, 65,4 miliardi l’import (+60% in dieci anni).
L’Italia non è autosufficiente per una vasta gamma di materie prime, a partire dal grano per la pasta, ed è dunque costretta ad acquistarle. Si potrebbe scrivere un trattato sulle motivazioni che hanno determinato il depauperamento del granaio nazionale, quello pugliese, ma la realtà oggi è questa. E si deve fronteggiare in un solo modo, come hanno spiegato i diecimila agricoltori della Coldiretti che dopo due giorni hanno abbandonato ieri il presidio al Brennero: reciprocità e obbligo di etichetta trasparente nella Ue. Altrimenti l’attacco al Made in Italy continuerà con il risultato di deprimere sempre di più i prezzi riconosciuti agli agricoltori, favorire l’abbandono dell’attività e accrescere ancora di più la quota dell’import.
Nel 2023, secondo il report realizzato dalla Coldiretti, sono sbarcati sul nostro territorio oltre 5 miliardi di chili di ortofrutta (+14% sul 2022), con un vero boom per le patate (quasi 800 milioni di chili tra fresche e congelate). In netta salita anche gli acquisti di succhi di frutta: 202 milioni di chili, il 25% in più del 2022. Al conto pesante di frutta e ortaggi si aggiunge quello di grano duro (3,06 miliardi di kg,+66%) e tenero (4,88 miliardi, +8%). Il quadro si completa con latte (+47%), formaggi e latticini (+11%) e carni di maiale (+4%). “Dinanzi a quella che è una vera invasione di prodotti stranieri – ha dichiarato il presidente della Coldiretti Ettore Prandini – vogliamo il rispetto del principio di reciprocità: le regole imposte ai produttori europei devono valere anche per chi vuole vendere nel mercato Ue”.
Controlli dunque e soprattutto tutele. Delle allerte alimentari scattate in Italia lo scorso anno oltre 422 hanno riguardato prodotti stranieri (6 su 10 da Paesi extra-Ue) nei quali sono stati riscontrati residui di pesticidi pericolosi e vietati in Italia, come micotossine, metalli pesanti, inquinanti microbiologici, additivi e coloranti. Il campionario della black list è vasto, secondo l’analisi di Coldiretti sui dati Rasff aggiornati al 1° aprile, si va dai pistacchi turchi e iraniani con aflatossine alle carote egiziane con residui di Linuron, fino al succo d’arancia congelato iraniano al Propiconazole, tutte sostanze pericolose.
Non va meglio per il pesce, le 107 segnalazioni hanno riguardato ostriche francesi e olandesi con presenza di norovirus, seppie congelate albanesi al cadmio, pesce spada e tonno spagnoli con mercurio oltre i limiti, filetti di merluzzo congelato dalla Cina e cozze cilene con salmonella. Salmonella scovata anche nelle carni di pollo e di tacchino dalla Polonia, dall’Olanda e dalla Spagna. Non si salvano neppure le spezie, dal peperoncino dello Sri Lanka al cumino indiano con residui di pesticidi.
Se non si serrano le fila nella Ue si profilano sempre meno garanzie per i consumatori. Nel pacchetto di proposte presentato dalla Coldiretti per le elezioni europee ormai alle porte in prima linea c’è la trasparenza del processo produttivo che deve partire dal campo e arrivare alla tavola. E dunque etichetta d’origine Ue per tutti i prodotti (è partita proprio dal Brennero la raccolta di un milione di firme), impegni rafforzati contro le pratiche sleali commerciali e semplificazione burocratica. Tra le priorità la revisione del criterio dell’ultima trasformazione del Codice doganale della Ue e del luogo di provenienza che consente di italianizzare alcuni prodotti esteri. Ma soprattutto reciprocità.
La concorrenza sleale danneggia gli agricoltori europei sottoposti, secondo Coldiretti “a regolamenti e vincoli spesso fuori dalla realtà”. Uno studio dell’Università di Wageningen, ha stimato che l’Europa rischia di perdere fino al 20% della sua produzione alimentare, con punte del 30% per alcuni settori, a causa delle regole troppo stringenti, con l’effetto di rendere il Vecchio Continente sempre più dipendente dalle importazioni dall’estero. In gioco non c’è solo la tenuta del settore agricolo e delle filiere alimentari, ma la salute degli italiani e dei cittadini comunitari. Ed è anche una questione di democrazia del cibo. Prodotti a basso prezzo e di qualità spesso scadente sono la scelta obbligata dopo le devastazioni dell’inflazione che ora è in decisa ritirata, ma che ha creato seri problemi alle famiglie.
Il rischio è che aprendo le porte indiscriminatamente a tutto quello che arriva dai mercati, senza alcun filtro, chi può continua a mangiare bene, mentre per le classi meno abbienti il pasto diventa sempre meno sicuro e lontano dai principi della Dieta Mediterranea. Ma serve anche un’azione culturale, perché come ha spiegato più volte il consigliere delegato di Filiera Italia, Luigi Scordamaglia, bisogna capire che il cibo buono e sano ha un costo e che forse conviene investire quei pochi centesimi in più al giorno per garantire sulla tavola un cucchiaio di olio extravergine piuttosto che rincorrere l’ultimo modello di cellulare.
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