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Settimana decisiva per capire quando ci sarà il taglio dei tassi di interesse, l’inflazione Ue scende più che in Usa, occhi puntati sulle decisioni della Fed


È cominciata la settimana decisiva per capire quando comincerà il taglio dei tassi. Il tema caldo resta l’inflazione che in Europa scende più rapidamente che altrove. secondo i dati pubblicati da Eurostat, l’aumento dei prezzi nell’area euro si è attestato al 2,6% a febbraio, in calo rispetto al 2,8% di gennaio. Un anno prima era dell’8,5%. Su base annuale è scesa al 2,8% Un anno fa era del 9,9%. I tassi annuali più bassi sono stati registrati in Lettonia, Danimarca (entrambi allo 0,6%) e Italia (0,8%). I più alti in Romania (7,1%), Croazia (4,8%) ed Estonia (4,4%).
Rispetto a gennaio, l’inflazione annua è diminuita in venti Stati membri, è rimasta stabile in cinque ed è aumentata in due. A febbraio, la spinta più forte è venuto dai servizi (+1,73 punti percentuali), seguiti da alimentari, alcol e tabacco (+0,79), beni industriali non energetici (+0,42) ed energia (-0,36). Tranne le BCE nei prossimi giorni si riuniranno le principali banche centrali del mondo.

Ha cominciato nella notte il Giappone che si prepara ad annunciare il primo aumento dal 2007 e porre fine alla lunga stagione dei tassi negativi. A spingere è stato l’andamento delle buste paga diffuso venerdì mattina dalla federazione dei sindacati. L’obbligo di stoppare la spirale fra prezzi e salari ha convinto del tutto il board guidato dal presidente Kazuo Ueda a procedere con la storica decisione. Dal report è emerso che nell’ultimo anno c’è stato un incremento della retribuzione del 5,3%, il più forte degli ultimi trent’anni. Ma i mercati sono concentrati sulla riunione di due giorni della Fed di mercoledì.
Si prevede che la banca centrale manterrà i tassi stabili. Qualsiasi segnale su possibili riduzioni sarà tenuto sotto osservazione, soprattutto perché i dati sull’inflazione più caldi del previsto per febbraio hanno messo i mercati in guardia rispetto ai segnali aggressivi della banca centrale. L’andamento dei futures sconta ora una probabilità del 57% che la Fed tagli i tassi a giugno, rispetto al 71% di lunedì scorso. Il mercato ha anche ridotto il numero di tagli previsti quest’anno a meno di tre, rispetto ai tre-quattro di inizio anno.

Un’indagine delle aspettative di inflazione a un anno, una misura monitorata dalla Fed, è rimasta invariata al +3,0% a marzo. Anche le prospettive di inflazione a cinque anni delineate dall’indagine sono rimaste stabili al +2,9% per il quarto mese consecutivo. Nel Regno Unito, la Banca d’Inghilterra dovrebbe mantenere i tassi fermi nella riunione di questa settimana, ma un taglio dei tassi è previsto per agosto. Oltre a Stati Uniti, Giappone e Regno Unito, anche le banche centrali di Brasile, Svizzera, Norvegia e Turchia sono attese prendere decisioni sui tassi di interesse, mentre si prevede che gli indici sull’attività economia elaborati da S&P Global indichino una stabilizzazione dell’attività del settore privato nell’Eurozona a marzo, con una minore contrazione nel settore manifatturiero e un’espansione dei servizi. Tuttavia, alcuni paesi come Germania e Francia potrebbero ancora registrare una contrazione dell’attività nei servizi.

Proprio per ridare slancio alle economie dei due principali Paesi della Ue la Bce potrebbe precedere la Fed nel processo di riduzione dei tassi. Il primo appuntamento potrebbe essere a giugno. In quella occasione il tasso d’interesse dovrebbe essere ridotti dello 0,5%. Un altro 0,5% o addirittura 0,75% potrebbe arrivare con due successive delibere entro il 31 dicembre portando i tassi nella Ue fino al 3,50%. Nel corso del 2025 la riduzione potrebbe procedere più spedita. Se l’inflazione tornerà attorno al 2%, anche il costo del denaro potrebbe essere portato attorno a quel livello.
La stretta creditizia, infatti, ha determinato conseguenze piuttosto gravi. Sono aumentate di oltre 1 miliardo, infatti, le rate dei prestiti non pagate da gennaio 2023 a gennaio 2024, le sofferenze bancarie riconducibili alle imprese sono cresciute di quasi il 7%, salendo da 17 miliardi e 300 milioni a 18 miliardi e mezzo, segnale di difficoltà, da parte della clientela, a gestire l’indebitamento finanziario con i tassi in aumento.


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