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Il ministro Raffaele Fitto

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Entro il 2025 ci sarà la riforma delle politiche di coesione, per il Sud arriva la stretta sui Fondi Ue: meno poteri alle Regioni e risorse solo in cambio di riforme


C’è un fantasma preoccupante sull’orizzonte del Mezzogiorno, quello della riforma delle politiche di coesione. L’obiettivo dell’Unione Europea è non solo quello di migliorare la spesa del “tesoretto” messo a disposizione dai contribuenti per le aree meno sviluppate ma anche di vigilare sull’effettivo raggiungimento degli obiettivi previsti. Per l’Italia le nuove regole potrebbero tradursi in un maggior peso dei poteri di coordinamento delle amministrazioni centrali ma anche in una vera e propria stretta dei fondi disponibili, che saranno erogati sul modello del Pnrr e, quindi, solo in cambio della realizzazione di riforme “strutturali”. Un meccanismo che in un paese come l’Italia, dove i fondi dell’Europa hanno spesso sostituito i finanziamenti ordinari perdendo il carattere dell’aggiuntività, potrebbe avere due conseguenze.

La prima sicuramente, positiva: quella di mettere fine alla stagione dei fondi a pioggia, degli sprechi che ha spesso caratterizzato la gestione delle Regioni, lasciate libere di utilizzare le risorse anche per finanziare la spesa corrente. La seconda conseguenza, però, potrebbe essere quella di capovolgere la logica “dal basso” che fino ad ora ha contrassegnato la politica dei fondi europei, affidando di fatto l’intera regia a Roma. Un modello che, per la verità, il ministro della Coesione (e candidato in pectore per una delle vicepresidente operative dell’Ue), Raffaele Fitto, ha in qualche modo anticipato nel decreto che ha riformato le politiche messe in campo per lo sviluppo del Sud. Ma che ha anche suscitato più di una critica da parte dei Governatori, a cominciare da quello della Campania, Vincenzo De Luca.

RIFORMA DEI FONDI UE, PER IL SUD SI RISCHIA LA STRETTA

Le discussioni in Europa sono ufficialmente iniziate con l’istituzione del Gruppo di alto livello sul futuro della Politica di coesione da parte della Commissaria Elisa Ferreira, che, a febbraio 2024, ha prodotto il suo documento finale. Poco dopo la Commissione Europea ha pubblicato la Relazione numero 9 sulla coesione. Il dibattito entrerà nel vivo con il nuovo ciclo legislativo dell’Ue, l’insediamento della nuova commissione europea, la seconda a guida Von der Leyen e i negoziati sul futuro bilancio europeo che si avvieranno nel 2025. Solo per avere una dimensione della posta in gioco, basta ricordare che Bruxelles sta ragionando su una riforma radicale del suo bilancio.

Dal Trattato di Roma, infatti, la Politica di coesione è stato uno dei pilastri del progetto europeo e una delle voci di spesa più consistenti del bilancio dell’Unione: dalla riforma dei Fondi strutturali nel 1989 fino al 2023, l’UE ha investito 1.040 miliardi di euro per rafforzare la coesione economica e sociale. Solo per l’Italia, nel periodo 2021-2027 la dote a disposizione si attesta sui 75 miliardi di euro. Per avere le stesse risorse anche nel periodo 2028-2034 dovrà vincolarle ad un preciso piano di sviluppo, con tanto di scadenze, milestones e verifica degli obiettivi. Non proprio una passeggiata considerando le difficoltà che da sempre segnano nel nostro Paese l’avvio delle riforme o dei cantieri.

IL RISCHIO DELL’OSTRUZIONISMO DEI PAESI DELL’EST

Nel difficile negoziato che si aprirà nelle prossime settimane a Bruxelles bisognerà, ovviamente, trovare un punto di compromesso fra due “fazioni” opposti. Da una parte i cosiddetti Paesi “frugali”, guidati essenzialmente dalle nazioni nordiche, ostili da allargare i cordoni della borsa per ampliare la dote a disposizione. Dall’altra i Paesi meridionali, che hanno sempre chiesto all’Europa di fare qualche passo in più sul fronte dello sviluppo. L’accordo potrebbe proprio cadere sull’introduzione delle “condizionalità” per l’erogazione dei fondi, sul modello del Pnrr.

Un’operazione che risulterebbe però indigesta anche ai Paesi dell’Europa Centrale e Orientale, come l’Ungheria di Orban, la Slovacchia e i Paesi Baltici, entrati nell’Ue proprio perchè allettati dalla dote delle politiche di coesione. Ma non basta. L’estensione del modello Pnrr potrebbe di fatto estromettere dalla gestione dei Fondi europei le Regioni, dal momento che i programmi sono gestiti, centralmente, dalla Commissione e dagli Stati membri, senza la partecipazione dei territori. E’ vero che questo approccio è stato spesso fonte di procedure complesse e farraginose ma ha avuto anche il merito di identificare sfide e opportunità locali. Come a dire: i Governatori delle Regioni potrebbero vedere molto ristretto il perimetro dei poteri a tutto vantaggio delle cabine di regia centrali.

I DATI DELL’ULTIMO RAPPORTO SULLA COESIONE

Secondo l’ultimo Rapporto sulla coesione, pubblicato nel 2024, la sua spesa rappresenta quasi il 13% degli investimenti pubblici totali nell’UE nel suo complesso e il 51% negli Stati membri meno sviluppati. La Politica di coesione interviene anche sulle imprese: sia con i contributi che vengono erogati, in esenzione del generale divieto degli aiuti di stato e secondo le possibilità (limiti territoriali e intensità di incentivazione) definite dalle carte degli aiuti di stato, sia con interventi di natura “orizzontale”, come i centri di trasferimento tecnologico e le iniziative territoriali di collaborazione ricerca-impresa, rappresentando, quindi, anche il principale strumento delle politiche industriali messe in atto in Europa. Da questo punto di vista, una centralizzazione dei programmi potrebbe essere utile per evitare la frammentazione della spesa e la sovrapposizione degli incentivi.


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