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Non c’è motivo per cui lo spread non possa scendere a 50 come quello francese: tra i 7 Grandi l’economia italiana è l’unica con un saldo primario strutturale in surplus e siamo terzi per deficit/Pil

LO SPREAD E L’ECONOMIA ITALIANA

La cappa di piombo dello spread pesa sulla finanza pubblica italiana dai tempi di quel lontano e tempestoso 1997, quando l’Italia si stava giocando l’ingresso nell’euro e il ministro del Tesoro – Carlo Azeglio Ciampi – controllava ansiosamente lo spread Btp-Bund ogni cinque minuti. In effetti, tanta ansia era giustificata. Lo spread misura infatti la fiducia dei mercati nell’Italia, una cartina di tornasole che potrebbe servire a scrivere la storia economica della Penisola prendendo quel divario fra i rendimenti dei Bund e quelli del Btp come stella polare.

L’ECONOMIA ITALIANA E LO SPREAD: DAI MIRACOLI DI CIAMPI ALL’ERA DI DRAGHI

Non molti ricordano che negli anni bui delle spirali inflazione/svalutazione lo Stato italiano era arrivato a spendere più di 12 punti di Pil solamente per pagare gli interessi – più di quello che spendeva complessivamente per i dipendenti di tutte le amministrazioni pubbliche, centrali e locali. Lo spread nel 1993 era arrivato a quota 600 punti, ma Ciampi quattro anni dopo, con una manovra epica e miracolosa (equivalente al sollevarsi tirando sulle stringhe delle scarpe) riuscì a ridurre molto rapidamente sia quel divario che il peso degli interessi.

E forse non molti ricordano quanto valesse, in termini di spread, quel miracolo: negli anni seguenti, anche grazie al fatto che la Germania stessa andava violando le regole di Maastricht con un rapporto tra deficit e Pil superiore al 3 per cento, lo spread si ridusse quasi a zero.

Ma poi cominciarono i “cigni neri”: con la Grande recessione, la crisi da debiti sovrani, la pandemia, la guerra in Ucraina, lo spread italiano ricominciò ad allargarsi. Oggi si situa intorno a quota 160, ma non bisogna dimenticare che nel 2021 – sotto il governo di Mario Draghi – era sceso anche sotto i 100 punti.
Poi, con lo sfilacciarsi di quel governo il divario aveva ricominciato ad allargarsi, fino a superare i 200 punti, appesantito dall’incertezza legata alle elezioni del settembre 2022. Fortunatamente il nuovo governo Meloni riuscì a tenere la barra dritta sulla gestione della finanza pubblica e lo spread calò nuovamente al livello di cui sopra.

Ma ora un’altra domanda si pone. Perché lo spread non scende ai livelli del 2021? E perché lo spread non dovrebbe scendere – come ha già provocatoriamente osservato Marco Fortis – a livelli francesi (cioè una cinquantina di punti)?

ECONOMIA ITALIANA SOLIDA NEI FONDAMENTALI

Guardiamo alle cifre. La variabile principe alla quale guarda lo spread è il deficit del bilancio pubblico, una grandezza che rivela sia la gestione delle finanze statali che la crescita dell’economia (un’economia che cresce gonfia le entrate e fa ridurre l’ammontare delle spese di sostegno ai redditi). E questo deficit deve essere traguardato nella sua tendenza di fondo, cioè al netto dell’influenza del ciclo sul disavanzo: il cosiddetto “saldo strutturale”. Ebbene, come rivela il grafico pubblicato in questa pagina, che riporta i dati dei deficit strutturali (in percentuale del Pil) dei Paesi del G7, il disavanzo italiano è più basso di quello francese e al terzo posto tra i sette Paesi.

Non solo: per la sostenibilità del debito pubblico la variabile cruciale è quella del saldo primario (al netto degli interessi), e l’Italia è il solo Paese del G7 con un saldo primario strutturale in surplus (per la Francia questa grandezza è pari al -3 per cento del Pil). E, se vogliamo guardare alla crescita, negli ultimi anni l’economia italiana ha messo una marcia in più ed è andata via via crescendo più di quella francese.

STABILITÀ POLITICA COME FATTORE-CHIAVE

Ce n’è abbastanza per chiedersi perché lo spread Italia-Francia (vedi il grafico) sia di 100 e passa punti. E perché le agenzie di rating, che danno un voto all’Italia molto inferiore a quello della Francia, non debbano rivedere quel giudizio. La risposta a queste domande la si trova in due ragioni: in primo luogo, la stazza del debito, che pesa come un macigno nel conscio e nell’inconscio dei mercati. Il debito italiano è sicuramente sostenibile, dicono tutte le analisi, ma gli operatori sono ipnotizzati dalle misure assolute e non dalle sottigliezze sulla sostenibilità.

Secondo, la nomea: purtroppo l’Italia, per quanto riguarda la stabilità politica, non gode di una buona stampa. E l’ultimo sciagurato esempio di instabilità – la defenestrazione di Mario Draghi un anno fa – non ha certo rassicurato.
Ora si promette stabilità, e il governo di centro-destra dovrebbe durare per l’intera legislatura. Ma i mercati, come San Tommaso, vogliono toccare per credere. Non c’è altro da fare, quindi, che aspettare e, nel frattempo, tenere a bada quanti spingono, per calcoli elettorali legati alle elezioni europee prossime venture, per allentare le maglie della finanza pubblica.


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