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Da qualche anno c’è il tentativo di promuovere un nuovo aziendalismo, una nuova finanza e, allo stesso tempo, un diverso modello di sviluppo
di FRANCESCO CICIONE*
DAL 1° gennaio 2024, per effetto della Direttiva UE 2022/2464 e del Regolamento Delegato 2023/2772, si inizierà ad estendere significativamente la platea di imprese aventi l’obbligo di rendere “comunicazioni non finanziarie”, avviando, così, un percorso che si consoliderà progressivamente di anno in anno fino al 2029, per ampiezza del perimetro e profondità del livello di attuazione. Senza entrare nel merito dei relativi tecnicismi, si conferma il tentativo, già in essere da qualche anno (non senza retoriche e casi di washing), di promuovere un nuovo aziendalismo, una nuova finanza e, allo stesso tempo, un diverso modello di sviluppo, nell’epoca delle grandi sfide di transizione dalle quali dipende la sopravvivenza stessa del nostro pianeta per come oggi lo conosciamo.
L’auspicio (utopistico?) è che l’obiettivo finale di questo percorso di nuova finanza possa essere l’affermazione di un nuovo paradigma capace di far emergere il primato degli impatti positivi (ambientali, sociali, demografici, democratici, culturali) sulla tirannia dei risultati finanziari che si è, invece, pericolosamente imposta come cultura dominante (di management e di policy) negli ultimi 50 anni, periodo che, non a caso, ha coinciso con la fase storica della “finanziarizzazione globale” e che ha portato in dote modelli (aziendali e di sviluppo) eminentemente acquisitivi e speculativi (finanche nell’impegno filantropico e mecenatico). Estremizzando il concetto potremmo dire: non si vive di soli numeri, è il momento di andare oltre l’incapacità dei soli numeri, ecco perché una nuova finanza. Posta in questi termini, si tratta certamente di una evidente eresia (ne siamo consapevoli!) per l’attuale generazione di manager e policy maker educati ad essere indefessi e rigorosi “sacerdoti” del “dio profitto” a tutti i costi (e della sua costante massimizzazione). Un “vitello d’oro” cui abbiamo svenduto la verità dell’essere comunità umana e che ha come corollario una grammatica povera e sterile che si nutre di concetti elementari e banalmente pragmatici, inibendo ogni necessario slancio strategico e di visione utile a costruire vero futuro.
Questa “religione” è, infatti, di orizzonte corto, anzi cortissimo: distrugge e non custodisce il pianeta e l’umanità che lo abita, consuma e non produce valore e bellezza, inibisce la progettualità generativa e di lungo termine (l’unica capace di costruire nuove ed efficaci ontologie e morfologie di futuro inclusive, sostenibili ed armoniche). L’avvento dell’intelligenza artificiale produrrà (nel bene e nel male) effetti dirompenti anche in questa prospettiva: siamo al bivio tra distopia ed utopia, tra l’ulteriore accrescimento delle diseguaglianze e delle ingiustizie a vantaggio di una ristrettissima elite tecno-finanziaria e la costruzione di un mondo migliore (“a better world”, direbbe Albert Hirschman). Ciò è quantomeno singolare in un’epoca nella quale, la ricchezza e la liquidità, provengono (direttamente o indirettamente) per i quasi sei ottavi da meccanismi finanziari o digitali. In questa cornice, l’economia reale (cui si riservano solo le briciole) è sfruttata e soffocata.
È necessario invertire rapidamente la rotta. Serve una nuova finanza. Se avremo la capacità ed il coraggio di orientare al meglio (ed al bene) questa inevitabile transizione si passerà velocemente dalla centralità del “profitto” alla centralità del “valore”, dalla “rilevanza quantitativa” alla “rilevanza qualitativa”: saremo chiamati a recuperare l’idea della “destinazione universale dei beni”, la consapevolezza che siamo “custodi” e non “proprietari” muniti di “potestas procurandi et dispensandi” e non già di “ius utenti ed abutendi”. Il “successo” non si dovrà misurare sulle quantità delle risorse finanziarie personali (o aziendali) possedute bensì sulla qualità degli impatti positivi posti in essere a custodia delle risorse comuni. Sono necessarie delle apposite sand box in alcune specifiche iniziative (servizi essenziali, welfare, innovazione, education, etc) che possono e, soprattutto, debbono essere considerate “beni comuni” o, meglio ancora, “imprese private di interesse pubblico”. E pertanto progressivamente affrancate dall’obbligo (morale e giuridico) del profitto nonché sostenute da appositi stanziamenti.
E’ necessaria, in definitiva, una nuova alfabetizzazione ed un nuovo quadro normativo. Vale per le imprese, ma anche e soprattutto per la nuova finanza e la politica: la logica del profitto a breve termine è perdente. Le imprese che, per prime, si stanno muovendo in questa direzione di nuova finanza, faticano ad essere comprese. Eppure, un nuovo mondo si intravede all’orizzonte e noi abbiamo il dovere di costruirlo lontani dalle retoriche (che quasi sempre si sprecano nelle parole ma puntualmente e tristemente evaporano nei fatti) e dalle intransigenze (che si auto-dissimulano affinché tutto cambi ma ogni cosa resti immutata). Luca Meldolesi, riassume questa sfida in poche illuminanti parole: “Sosteniamo la necessità di eludere la cogenza generale (che diventa poi costrizione) dell’Economics – con la sua assunzione spesso implicita che la motivazione chiave dell’attività economica è l’avidità umana immediata. Che l’innovazione possa condurre ad un surplus (un margine, un profitto, un plusvalore o comunque lo vogliamo chiamare) è solo un’ovvietà. Il punto è l’appropriazione e l’utilizzo di quell’eccedenza. Se ci definiamo come un’iniziativa privata d’interesse pubblico, vogliamo dire che il nostro obiettivo è lo sviluppo (ovvero la correzione dei differenziali di sviluppo) e che è lo sviluppo a poter condurre infine ad una ragguardevole remunerazione del capitale investito. Per questo abbiamo bisogno di finanziatori pazienti”. Non è il solo ad aver buttato il sasso nello stagno.
Gael Giraud, a sua volta, ci ricorda: “L’economia neoclassica usa una matematica troppo elementare. La teoria dell’equilibrio è semplicistica. Bisogna usare i sistemi che si adoperano nella fisica e nella chimica, che considerano ogni variabile rispetto alle altre, in un movimento dinamico e non lineare. Dobbiamo adattare i modelli alla realtà e non piegare la realtà ai modelli. La matematica più complessa serve il primo intento. La rigidità delle ipotesi poste dall’economia neoclassica, come il paradigma delle aspettative razionali, serve invece a piegare la realtà ai modelli. So qual è la differenza fra la complessità del reale e i presupposti di razionalità che vengono teorizzati nei modelli dell’economia neoclassica e che vengono dichiarati nelle procedure e nelle compliance delle istituzioni finanziarie. Io ho lavorato nelle banche. Le istituzioni finanziarie sono organismi burocratici che tendono ad autoperpetuarsi. E che spesso fanno esattamente ciò che, secondo i principi di razionalità, non dovrebbero fare.”
E poi ancora Norbert Wiener: “La teoria del comportamento economico e sociale attualmente in voga negli Stati Uniti, teoria che è stata sancita quasi ufficialmente, consiste fondamentalmente in un’opinione molto precisa sulla natura di una retroazione che si considera sufficiente per tutti i fenomeni di carattere sociale, e che ci viene imposta. Si tratta della retroazione economica dell’iniziativa privata. Gli elementi in base ai quali si deve stabilire il successo o il fallimento di un’iniziativa sono rappresentati dal denaro, oppure da qualche cosa che è possibile convertire in denaro, e si suppone che le ripercussioni dell’aumento o della diminuzione di questa variabile economica sugli individui e sulle imprese siano sufficienti per regolare qualsiasi iniziativa. Vale a dire che, quando si verificano i profitti e si conosce l’entità delle perdite o dei guadagni cui ha dato luogo l’iniziativa grazie all’attività commerciale di compravendita, all’interesse sul capitale e alle spese necessariamente sopportate per le sostituzioni e per la manutenzione, e a causa della svalutazione si suppone di avere un’indicazione esauriente del grado di successo o di fallimento dell’iniziativa.”
A tal proposito ha commentato Andrea Bonaccorsi: “Questa teoria del comportamento economico e sociale, che, ci dice Wiener, “ci viene imposta”, non è fondata. Se infatti – argomenta in modo stringente – la possibilità di rendere equivalente ogni valore al valore monetario fosse realizzata, allora sorgerebbe un settore dell’economia specializzato nell’assicurare i valori futuri. Ora questa industria non esiste: come osserva ironicamente Wiener, lo stesso mondo degli affari “non ci crede veramente”. La pretesa di convertire ogni valore, indipendentemente dalla scala temporale, in denaro, oppure “qualche cosa che è possibile convertire in denaro” è dunque infondata. Il denaro è una metrica che si applica solo nel dominio del rischio assicurabile, quindi necessariamente nel breve termine. Non può essere applicato a retroazioni che abbiano una scala temporale più lunga.” Insomma: “alea iacta est”. Vogliamo impegnarci a costruire veramente il futuro e una nuova finanza assumendo ed esercitando la responsabilità che ci compete oppure vogliamo continuare ad occuparci solo delle “trimestrali di cassa” e dell’accrescimento del “profitto”, ammantandoli di un po’ di sano storytelling ESG ma facendo di essi l’unica metrica con cui misurare l’efficacia di un progetto?
La sfida che siamo chiamati a vincere è ben più ambiziosa, ben più ambiziosa! Il Sud Italia, per la sua tradizione e per la sua attuale struttura sociale, economia ed industriale, può essere protagonista globale di questo necessario slittamento paradigmatico: l’esperienza dell’Harmonic Innovation Group è impegnata in questa prova eretica, inedita e controintuitiva. Là dove un anno finisce ed un altro sta per iniziare è il momento giusto per obbligarsi in propositi realmente ed autenticamente nuovi. D’altronde il 2024 sarà l’anno che ci introdurrà al Grande Giubileo del 2025: l’occasione giusta per azzerare il passato e ripartire su basi nuove. “Bello è il bosco, buio e profondo, ma io ho promesse da non tradire. E miglia da percorrere prima di dormire. E miglia da percorrere prima di dormire.”
*Presidente Entopan
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