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NEGLI ultimi giorni le due principali Banche centrali del mondo – la Fed e la Bce – hanno reiterato la ferma determinazione di ricacciare l’inflazione verso il famoso limite del 2%, da sempre – o almeno da molto tempo – l’obiettivo principe della politica monetaria, una sorta di calice sacro per i consumatori. Questa determinazione sembra ignorare la possibilità che gli aumenti del costo del danaro possano portare a una recessione, che già, almeno in Europa, si avvicina, sospinta anche da altri fattori (perdita di fiducia, domanda debole, rumori di guerra…).
Anche se i banchieri centrali si lasciano qualche via d’uscita dicendo che le loro mosse saranno dettate dai dati dell’economia reale, la riaffermazione del 2% come “Sacro Calice” desta più di un interrogativo. E il primo interrogativo è questo: perché il 2%? Ci sono due risposte a questa domanda. La prima dice che i banchieri puntano in verità alla stabilità dei prezzi, cioè all’inflazione zero (In una conferenza stampa del maggio 2003 Wim Duisenberg – il primo presidente della Bce – disse: «Nei 16 anni in cui sono stato governatore della Banca centrale olandese avemmo due anni di deflazione, al -0,5%. Dichiarai allora pubblicamente che vivevo nel paradiso dei banchieri centrali»).
Ora, vari studi hanno mostrato che gli indici dei prezzi sovrastimano l’inflazione, perché non tengono conto che ci sono molti aumenti di prezzo che in realtà sono dovuti a miglioramenti di qualità, e questa sovrastima è stata cifrata al 2%. Dal che si evince che un’inflazione al 2% è in realtà, tolti i miglioramenti di qualità, un’inflazione zero (tornando al già citato Wim Duisenberg, forse non si rendeva conto che quel -0,5% che allora magnificava era in realtà una deflazione spinta: -2,5%!). La seconda ragione che milita a favore del 2% attiene più direttamente alla politica monetaria. Una regola pacificamente accettata dice che, in un’economia ben temperata, il tasso di interesse reale (cioè al netto dell’inflazione), deve essere all’incirca eguale al tasso di crescita dell’economia stessa.
Ora, se il tasso d’inflazione è al 2% è più che probabile che i tassi di interesse siano più alti rispetto al caso in cui l’inflazione sia invece schiacciata allo zero%. E perché è bene che i tassi di interesse siano positivi? La risposta è semplice: se l’economia inciampa, prima o poi, in una recessione (cosa che è non solo possibile ma probabile), è bene che ci sia spazio per abbassare i tassi, così da stimolare l’attività economica e riportarla sulla retta via. Lo spazio per abbassare i tassi è limitato, dato che non si possono portare, se non in circostanze eccezionali, sotto lo zero (se i tassi fossero, mettiamo, al -2%, la gente non terrebbe più i soldi in banca ma li metterebbe sotto il materasso). Ma, se è bene che i tassi siano positivi, così da poterli diminuire quando occorra, di quanto dovrebbero essere positivi? Quanto spazio ci deve essere prima che la politica monetaria urti la barriera dei tassi zero, e veda quindi drasticamente diminuire i suoi spazi di manovra?
Come ricorda il premio Nobel Paul Krugman, uno studio della Fed del 1999 concluse che, con un’inflazione al 2%, l’economia si sarebbe trovata prossima al limite in cui i tassi vanno a zero solo per il 5% del tempo. E questa è la ragione per cui il 2% di inflazione fu messo sul piedistallo. Quel 2% sembrava un buon compromesso fra due obiettivi: da una parte, la perdita di valore della moneta deve essere abbastanza bassa così che la gente non se ne debba preoccupare troppo; dall’altra parte, bisogna che il conseguente livello dei tassi debba essere abbastanza alto da dare spazio a politiche di supporto, prima che l’economia si trovi al limite dei tassi zero, quando lo stimolo tradizionale non è più possibile. Il problema è che, da quando quello studio fu pubblicato, l’economia si è trovata sul limite dei tassi zero per un buon terzo – non per un ventesimo – del tempo.
Ecco la ragione per cui sembra ragionevole, adesso, cambiare l’obiettivo del 2% di inflazione, altro che sacro calice. In effetti, ci sono decine di Banche centrali che formulano il target attorno a una forchetta, con il limite superiore che eccede (e spesso non di poco) il 2%, ma Fed e Bce non vogliono toccare il loro 2%: temono di perdere credibilità se lo fanno quando l’inflazione è ben superiore a quel “Sacro Calice”. Certo, la decisione di mantenere il 2% è, per le ragioni appena dette, molto discutibile, ma la paura di “perdere la faccia”, per i banchieri centrali, è troppo forte. Allora? Paul Krugman vede tre esiti possibili: 1) cambiare l’obiettivo e portarlo almeno al 3%; 2) “ipocrisia strategica”: non dire niente, sostenere a parole il 2%, aspettare un anno o due, e quando sarà chiaro che l’inflazione ai livelli attuali non impedisce all’economia di crescere, allora si potrà dire che anche il 3% va bene; 3) continuare e/o intensificare i rialzi dei tassi fino a quando l’inflazione non va giù al 2%, anche se questo implica recessione e aumenti di disoccupazione. Tutto sommato, l’opzione 2) è la più probabile.
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