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GLI USA eviteranno la recessione, probabilmente sì; l’Europa eviterà la recessione, con ogni probabilità, no. Le risposte a queste due domande sono di solito inquadrate nelle previsioni sulla politica monetaria. Come se i tassi fossero i principali determinanti del corso dell’economia. Questa convinzione è specialmente presente nei mercati finanziari, che fremono ad ogni dichiarazione dei reggitori della moneta, a Francoforte e a Washington. Ma ci sono ragioni più cogenti del sentiero dei tassi per confortare il giudizio appena espresso sulle diverse probabilità di scampare la recessione sulle due sponde dell’Atlantico.

Guardiamo dapprima al grafico che descrive gli andamenti dell’inflazione e del costo del lavoro nell’Eurozona.

Come si vede, il costo del lavoro è rimasto regolarmente al di sotto dell’indice dei prezzi, significando, naturalmente, una perdita continua di potere di acquisto dei lavoratori. Primo allarme recessione: sfortunatamente, le statistiche relative all’andamento dei salari e costo del lavoro non sono così tempestive in Europa come sono negli Usa: la cadenza è solo trimestrale e a oggi sono disponibili solo le cifre relative al secondo trimestre dell’anno. Ma, anche se la tendenza del costo del lavoro dovesse accelerare nel trimestre passato e in quello in corso, difficilmente potrebbe colmare il ritardo rispetto all’incedere dei prezzi, pur se questi ultimi hanno rallentato nel trimestre in corso (il dato del quarto trimestre, per i prezzi, riflette la stima di novembre, appena rilasciata dall’Eurostat).

La conclusione è chiara: i lavoratori, nell’Eurozona, hanno sofferto, e continuano a soffrire, una perdita reale dei loro redditi, e non c’è da stupirsi se la fiducia dei consumatori perde colpi, e se il Pil ristagna. I consumi – che coprono più dei due terzi dell’attività economica – avrebbero potuto andare ancora peggio, se non fosse che le famiglie hanno ancora qualche cuscinetto di risparmi accumulati durante gli anni cupi della pandemia: tesoretti, peraltro, in via di esaurimento. Questa perdita di potere d’acquisto è la ragione principale che spiega la fatica dell’economia europea, una fatica che nell’Eurozona, sta chiaramente portando l’area verso la recessione. In America, tutte le scommesse sono sull’atterraggio: sarà dolce – disinflazione ma non recessione – o sarà brusco – disinflazione assortita del segno ‘meno’ nell’attività economica? Il grafico mostra le ragioni dell’ottimismo, e raffigura anche qui gli andamenti del costo del lavoro – limitato ai salari – e dell’inflazione. Negli Stati Uniti le statistiche sul costo del lavoro sono non solo più tempestive – come detto sopra – ma anche più abbondanti, tanto da dare l’imbarazzo della scelta. Molte di queste statistiche soffrono, però, di un effetto di composizione: cioé a dire, danno la media degli incrementi delle remunerazioni, senza indicare, però, se questi incrementi riguardano gli stipendi alti o gli stipendi bassi.

Paul Krugman – il premio Nobel dell’economia e uno dei migliori e più assidui commentatori dell’economia americana dalle colonne del New York Times – così spiega l’effetto di composizione: mettiamo, dice, che siano seduti al bar dieci operatori finanziari; di questi, nove sono i “Masters of the Universe”, che guadagnano milioni di dollari all’anno; e uno è un modesto – si fa per dire – analista di Wall Street, che prende “solo” qualche centinaio di migliaia di dollari l’anno. Quest’ultimo si allontana – dice Krugman – forse per andare al bagno, e gli altri rimangono a trincare. Il loro reddito medio aumenta, appena l’altro si allontana, ma cala di nuovo quando il “povero” ritorna, e tutto questo senza che nessuno abbia modificato il proprio reddito. Questo è quello che successe con la pandemia, quando il reddito medio all’inizio salì, solo perché coloro che avevano perso il lavoro erano soprattutto nei redditi bassi.

Delle varie statistiche mensili Usa sulle remunerazioni, quasi tutte soffrono di questo “effetto di composizione”, ma ce ne sono due che sono esenti: una di queste, però, è disponibile solo trimestralmente, ed è l’”Employment Cost Index” del Bureau of Labor Statistics, mentre l’altra è mensile, ed è calcolata dalla Federal Reserve Bank di Atlanta (“Wage Tracker”). Il grafico mostra come gli andamenti dei salari, che, come in Europa, fino all’inizio di quest’anno erano in ritardo rispetto all’aumento dei prezzi – e quindi registravano una progressiva perdita di potere d’acquisto – da molti mesi hanno cominciato a riguadagnare terreno, e ormai, a partire dal marzo scorso, la dinamica dei salari, se pure in rallentamento, segnala un aumento del potere d’acquisto, grazie alla diminuzione ancora più rapida del tasso di aumento dei prezzi al consumo.

L’economia degli Usa, insomma, è più flessibile di quella dell’Europa, a rischio recessione: i salari si adeguano più rapidamente all’aumento dei prezzi, non tanto perché ci siano clausole di indicizzazione ma semplicemente perché la contrattazione è più decentrata, e l’ottima tenuta del mercato del lavoro dà più potere negoziale ai lavoratori. Anche in Europa, e segnatamente in Italia, il mercato del lavoro ha tenuto bene, ma da noi la negoziazione salariale è molto più centralizzata, il che vuol dire che ci vuole più tempo per riguadagnare il potere d’acquisto perduto. Insomma, la ragione principale che milita a favore della tenuta dell’economia americana sta nel fatto che i consumi privati saranno sostenuti, sia dall’occupazione che dal potere d’acquisto dei lavoratori che torna ad aumentare.


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