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Patto stabilità, l’Italia punta allo scomputo degli investimenti dal calcolo totale e cerca la sponda della Francia a sua volta insoddisfatta

La strada dei conti pubblici italiani (e delle riforme) diventa sempre più stretta e far quadrare il bilancio con il fardello e i cascami del Superbonus al 110%, per il quale l’Agenzia delle entrate ha riscontrato irregolarità pari a 12 miliardi di euro, è un esercizio improbo. Ci sono poi i vincoli europei, quelli del Patto di Stabilità e Crescita, che in mancanza di un accordo entro l’anno sulle proposte di riforma presentate in primavera dalla Commissione rischiano di essere ripristinati tali e quali a come erano prima di essere sospesi nel 2020 a causa della pandemia.

A ricordare che il tempo stringe e che non ci saranno deroghe ulteriori è stato a Cernobbio, in occasione del Forum Ambrosetti, il commissario europeo agli Affari Economici, Paolo Gentiloni: «Sulla sospensione nel 2020 non c’è stata alcuna discussione tra gli Stati membri, pochissime discussioni sul fatto di prorogarla al 2021, qualche discussione per l’ulteriore proroga nel 2022; molte invece sull’ultima, quella relativa all’anno in corso».

PATTO DI STABILITÀ L’ITALIA CERCA LA SPONDA DELLA FRANCIA

L’Italia, come la Francia, non è pienamente soddisfatta delle proposte di riforma della Commissione, ora oggetto di discussione tra gli Stati membri e sulle quali al momento non sembrano esserci schiarite. Nell’apprezzare la maggior gradualità e personalizzazione dei percorsi di aggiustamento dei conti pubblici, il governo lamenta l’assenza dello scomputo degli investimenti dal calcolo del deficit, in particolare quelli destinati alla transizione energetica e alla digitalizzazione dell’economia.

Parigi è stata meno netta in proposito, ma è più o meno sulla stessa lunghezza d’onda nonostante il suo rapporto debito Pil abbia ormai superato la soglia del 110% e abbia visto ridursi drasticamente il proprio spazio di manovra nell’ambito del budget nazionale. Si ripropone inoltre la secolare spaccatura tra Paesi nordici, non soddisfatti, per ragioni diametralmente opposte, del progetto di riforma presentato da Bruxelles perché troppo lasco, e i Paesi del Sud, che con un indebitamento sempre più elevato faticano a trovare le risorse necessarie all’interno dei propri bilanci per soddisfare il fabbisogno di investimento.

LA REVISIONE DELLE REGOLE ARRIVA IN UN MOMENTO DI ALTA COMPETIZIONE INTERNAZIONALE

Il problema è che la revisione delle regole del Patto di Stabilità, con una guerra nel cuore dell’Europa ancora in corso e in un momento di forte rallentamento congiunturale e tassi elevati che hanno aumentato notevolmente il rischio di recessione, dovrebbe essere contestualizzato in uno scenario più ampio.

Uno scenario di competizione che vede sul fronte della transizione energetica, le rinnovabili e la mobilità elettrica, una sfida a tre tra Cina, Stati Uniti e Unione europea. E dove i primi due stanno finanziando la rivoluzione green a suon di sussidi pubblici: Washington con l’Inflation Reduction Act che tanta rabbia, dispiacere e sorpresa ha causato negli ambienti politici e industriali d’Europa; Pechino con il tradizionale dirigismo statale che dedica ai settori strategici e prioritari.

Oltre a dover finanziare la transizione energetica per centrare l’obiettivo di neutralità climatica entro il 2050 e una riduzione delle emissioni nocive del 55% entro il 2030, l’Europa dovrà preoccuparsi dei costi sociali della transizione. Ne sa qualcosa, ad esempio, la Germania, nella quale il partito di estrema destra AfD è diventato stabilmente la seconda forza politica nei sondaggi grazie a una martellante campagna sull’insostenibilità dei costi sociali della rivoluzione green.

PATTO DI STABILITÀ, DA BERLINO NESSUN AIUTO ALL’ITALIA

Berlino però ha ampio margine di manovra a livello di budget federale ed è già riluttante a utilizzarlo perché il suo ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner, non vede l’ora di ripristinare il freno costituzionale al nuovo indebitamento. Da qui non verrà alcuna sponda al desiderio italiano, e spagnolo e greco, di escludere “a priori” questi investimenti dal calcolo del deficit.

Il nostro migliore alleato resta quindi la Francia, che avrebbe voluto una proposta di riforma più coraggiosa, orientata al futuro e che non riecheggiasse troppo le vecchie regole (i “feticci” del 3% nel rapporto deficit Pil e del 60% in quello tra debito e Pil sono rimasti). Ma negli ultimi mesi ci sono state più turbolenze e incomprensioni tra i due Paesi, non ultima l’intervista dell’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato su Ustica e sulle presunte responsabilità francesi nella tragedia.

Se poi si volesse recuperare qualcosa anche con la Germania, è probabile che a Berlino, come a tutti gli altri Paesi europei, non dispiacerebbe vedere il via libera finale da parte dell’Italia al Mes con la ratifica parlamentare. Può darsi che questo aspetto faccia già parte dei calcoli del governo italiano, ma è una corda già troppo tesa che rischia di spezzarsi.

LE AZIENDE CINESI INVADO IL MERCATO DELL’ELETTRICO

Intanto, a semplice titolo di informazione e confronto, il fine settimana scorso è partita a Monaco la Fiera internazionale dell’auto e della mobilità. Il 41% degli espositori viene dall’Asia mentre il numero delle aziende cinesi partecipanti è raddoppiato. Tra queste la BYD, che quest’anno ha superato in vendite il marchio Volkswagen sul mercato cinese e ha presentato nella capitale bavarese un nuovo modello, un Suv elettrico (il sesto in un anno) dedicato al mercato europeo. La Cina, infine, rivela il Financial Times, si sta rapidamente dotando di una capacità produttiva di batterie per auto elettriche di molto superiore al fabbisogno interno. Le proiezioni della società di ricerca e analisi di mercato CRU Group stimano che al 2030 questa capacità raggiungerà i 4mila Gigawattora a fronte di una domanda stimatain 1.700 Gigawattora. Dove finirà questo eccesso di capacità?


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