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LA BANCA d’Italia ha pubblicato, lunedì 29 gennaio, i dati sulla ricchezza di famiglie, imprese e Pubblica amministrazione (“La ricchezza dei settori istituzionali in Italia – 2005-2022”). Dati che si prestano a guardare con occhio nuovo quel fardello, quel peso, quella soma che è, secondo la vulgata corrente (che dopotutto non è sbagliata) la grande palla al piede dell’economia italiana. Non è sbagliata, ma è incompleta. Quando si guarda alla salute finanziaria di una famiglia o di un’impresa, non si guarda a un solo lato del suo bilancio: si pesano attività e passività. Concentrarsi solo su quest’ultime è strano, come giudicare il bilancio di una famiglia guardando solo al debito del mutuo, senza tenere conto della casa, dei risparmi in banca o in titoli o di altre attività. Per non dire delle imprese, che hanno strutturalmente un indebitamento con le banche, a fronte del quale ci sono capannoni, macchinari, proprietà intellettuali e quant’altro.
Del pari, per la Pubblica amministrazione – lo Stato – non si deve guardare solo alla passività – principalmente il famoso debito pubblico – ma anche alle attività, che possono essere sia attività finanziarie che reali (edifici, monumenti, terreni coltivati e non, prodotti di proprietà intellettuale…).
Il grafico mostra tre definizioni di debito pubblico: quello lordo, come da volgata normalmente intesa, che si aggira oggi poco sopra il 140% del Pil (dati Fmi); quello al netto delle attività finanziarie che, al 2022, viene stimato (sempre dal Fondo Monetario) al 132,7% del Pil (queste attività comprendono titoli, prestiti, azioni… da notare che, anche se dopotutto la Banca d’Italia fa parte dello Stato, nelle attività non sono inclusi né l’oro né i titoli pubblici in pancia alla Banca centrale); infine, la definizione che dovrebbe essere la più corretta, dal punto di vista del buonsenso e dei principi contabili: il debito (fonte Banca d’Italia) al netto sia di attività finanziare che di attività reali. Qui, l’altrettanto famoso limite del debito al 60% del Pil è a portata di mano, sol che fosse definito in termini di debito netto: la Banca d’Italia lo stima, al 2022, al 61,1% del Pil. Potrebbe essere anche meno del 60%, dato che lo studio avverte che i dati possono “risentire di una sottostima del valore del patrimonio storico e artistico che penalizza particolarmente Paesi come l’Italia.
La maggior parte dei Paesi utilizza il metodo dell’inventario permanente per la stima del valore delle costruzioni che, in base agli standard internazionali SNA 2008 e ESA 2010, include il valore dei monumenti. Tale metodo può comportare una sottostima sistematica degli immobili a più elevato valore storico e artistico”. Mettendo assieme la ricchezza netta di imprese (finanziarie e non-finanziarie), famiglie e Pubblica amministrazione, si giunge alla ricchezza netta di un Paese. Se il mondo fosse una sola nazione, la ricchezza finanziaria netta sarebbe nulla, nel senso che ad ogni attività corrisponde una passività; rimarrebbero solo le attività reali. Ma, quando il mondo è diviso, la ricchezza finanziaria netta di un Paese può essere positiva o negativa. Se è positiva, vuol dire che il Paese è, nel suo complesso (mettendo assieme pubblico e privato) creditore rispetto al resto del mondo; se è negativa, è un debitore.
Il secondo grafico mostra come, nei dati più recenti (al II° trimestre 2023, tratti dall’ultimo “Rapporto sulla stabilità finanziaria” della Banca d’Italia, del 23 novembre scorso), l’Italia sia creditrice di altra ricchezza. Guardando ai cinque maggiori Paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Spagna) e agli Stati Uniti, il nostro Paese è l’unico, assieme alla Germania, ad avere (in percentuale del Pil) una posizione netta sull’estero positiva. Tutto questo – il debito pubblico netto al 60% del Pil e la posizione netta sull’estero positiva – indica che l’Italia meriterebbe uno spread migliore di quello che prevale adesso. Paghiamo non i vizi di adesso ma i vizi del passato.
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