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La sede della Banca centrale europea a Francoforte

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LE BANCHE centrali andranno invertire la rotta dei tassi? E quale sarà la prima? E allenteranno la vite della restrizione monetaria? Da qualche settimana i mercati si erano fermamente orientati su un futuro prossimo venturo di allentamento delle posture restrittive, nell’una e nell’altra sponda dell’Atlantico. Le previsioni non vertevano sul ‘se’ ma sul ‘quando’. E ci si orientava, in generale, sul primo semestre del 2024. Le Banche centrali, che amano guidare e non amano essere guidate, si sforzavano – come un sol uomo (Powell, della Fed) e come una sola donna (Lagarde, delle Bce) – di smorzare quella attese, bollandole di premature, se non di fantasiose: ammettevano, questo sì, che i tassi per ora si mantengono fermi, all’alto livello raggiunto (5,25% in America, 4,5% nell’Eurozona), ma non dicevano per quanto tempo sarebbero rimasti sull’altopiano, escludevano che potrebbero a breve scendere a valle, e non escludevano, al contrario, la possibilità di ulteriori rialzi.

Dietro le attese dei mercati c’erano solide ragioni: da un lato, l’inflazione andava scendendo, anche più rapidamente del previsto, e sia al livello delle materie prime (specie il petrolio), che a livello dei prezzi al consumo, un livello che si biforca nell’indice generale e in quello cosiddetto ‘core’ (che esclude alimentari ed energia). Se l’obiettivo delle Banche centrali era quello di abbassare la febbre dei prezzi, quell’obiettivo era in via di raggiungimento.

L’altra solida ragione stava e sta nell’economia reale: questa soffriva e soffre, più in Europa (dove il secondo semestre dell’anno configura ormai una recessione tecnica, con due trimestri – quello scorso e quello in corso – che registrano un segno negativo), che in America (dove tuttavia, dopo l’exploit del trimestre passato, con una crescita annualizzata del 5,2%, il quarto trimestre è stimato in quasi stagnazione). Le Banche centrali hanno sì per obiettivo quello di tenere modesta l’inflazione, ma non hanno solo quell’obiettivo: nel caso della Fed, il mandato impone, con pari dignità, il controllo dell’inflazione e la massima occupazione, mentre nel caso della Fed, pur se l’inflazione bassa è l’obiettivo primario, gli statuti chiaramente indicano, come obiettivo secondo, il sostegno all’economia. Insomma, se l’economia rallenta, e se – come ammettono sia la Fed che la Bce – non tutti gli effetti restrittivi del passato aumento del costo del danaro si sono ancora manifestati, perseguire per molti mesi ancora questo livello di restrizione (per non dire serrare ulteriormente le viti) avrebbe l’aspro sapore dell’accanimento terapeutico.

Bisogna poi considerare un’altra dimensione della restrizione. Le Banche – ormai dall’inizio della postura restrittiva – hanno usato due canali per rendere più difficili le condizioni monetarie e rallentare così l’attività economica, raffreddando la domanda e quindi l’inflazione. Il primo canale è quello, ben noto, dell’aumento dei tassi. Il secondo è il Qt (Quantitative Tightening): vendere sul mercato i titoli acquistati negli anni cupi della pandemia, e sostituire così l’”allentamento quantitativo” (Qe, Quantitative Expansion), che iniettava soldi nell’economia, con il simmetrico Qt, che toglie liquidità al sistema economico. Guardando alla restrizione monetaria da questo secondo punto di vista, la conclusione che si ricava dal grafico (che riporta gli attivi dei bilanci della Bce, della Fed e della Bank of England,) è una sola: la Bce è stata molto (troppo?) solerte nel sottrarre liquidità al sistema finanziario dell’Eurozona vendendo i titoli che aveva in pancia (tecnicamente, non è questione di venderli, ma di non rinnovarli alla scadenza, col che si va a scaricare sul mercato l’onore e l’onere di finanziare i fabbisogni). Rispetto al massimo del periodo, la Bce ha ridotto gli attivi di poco più del 20%, contro un 13% e 15%, rispettivamente, di Fed e BoE.

Insomma, mettendo assieme l’aumento del costo del danaro e la sottrazione di liquidità all’economia dell’Eurozona, si deve concludere che la restrizione della Bce è stata più accanita rispetto alle consorelle, pur se l’inflazione è più bassa in Europa rispetto all’America e l’economia è nettamente più debole. I tassi di interesse reali sono divenuti positivi per l’Italia e per la media Eurozona, e superiori al tasso di (de)crescita dell’economia. Se ci si dovesse chiedere non tanto ‘quale sarà tra le banche centrali a invertire la rotta dei tassi’, ma ‘quale Banca centrale dovrebbe essere la prima a invertire la rotta dei tassi’, non c‘è dubbio che la risposta dovrebbe collocarsi a Francoforte.


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