Stazione ferroviaria
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Ferrovie e privatizzazione. Gli errori del passato non hanno insegnato nulla. Basta ricordare il caso della Tav e treni inglesi
Ne bis in idem, recita il vecchio brocardo latino. Mai commettere lo stesso errore, diciamo oggi. Lo diciamo solo però, perché spesso invece lo facciamo. È il caso della strada verso la privatizzazione delle ferrovie italiane, che in questi giorni è tornata agli onori delle cronache per i lineamenti strategici sul percorso di riassetto proprietario che sono stati tracciati dal nuovo amministratore delegato, Stefano Antonio Donnarumma.
LA PRIVATIZZAZIONE DELLE FERROVIE È TORNATA AGLI ONORI DELLE CRONACHE
Negli anni passati si erano confrontate due ipotesi. Quella di collocare il Gruppo nella sua integrità sul mercato per classare un pacchetto minoritario di azioni, oppure quella di lasciare la rete ferroviaria in mano pubblica, per le sue caratteristiche di monopolio naturale, mettendo sul mercato le imprese ferroviarie nei settori passeggeri e merci, oltre alle attività collaterali e meno direttamente strumentali al core business.
Ora il vento è cambiato. L’idea che va per la maggiore consiste nella partecipazione dei privati alla rete ferroviaria ad alta velocità, la parte più pregiata del monopolio naturale, con l’obiettivo di mobilitare investimenti privati secondo il modello RAB, Regulatory Asset Base.
Non sveliamo subito l’assassino, ma per ora limitiamoci ad osservare una drammatica inversione di segno rispetto alla discussione degli anni passati sulla privatizzazione del sistema ferroviario nazionale. Sui rischi di collocare sul mercato la rete ferroviaria nazionale, o parte di essa, non mancano certo evidenze che segnalano criticità gravi.
Esistono due precedenti, uno nazionale ed uno britannico. Durante gli anni Novanta del secolo passato fu già tentata la privatizzazione di una parte della infrastruttura ferroviaria nazionale. Proprio quella ad alta velocità. Era il progetto TAV, che vedeva nell’azionariato della società la presenza al 40% di un pool di banche guidato da Mediobanca.
DURANTE GLI ANNI NOVANTE FU GIÀ TENTATA LA STRADA DELLA PRIVATIZZAZIONE
Il denaro che le banche avrebbero apportato per contribuire a finanziare la costruzione della nuova rete di alta velocità era in realtà un prestito oneroso a carico dello Stato. Con tutti i rischi a carico della parte pubblica. Il progetto non era stato propagandato con un acronimo britannico dal fascino esotico. Ma la sostanza era RAB, come vedremo più avanti. In cambio, per soprannumero, la società a minoranza privata avrebbe ottenuto, a valle della realizzazione della infrastruttura ad alta velocità, l’esercizio del servizio passeggeri di media e lunga percorrenza sulla nuova rete. In una condizione di monopolio. Una formidabile rendita.
Insomma, nel modello TAV ai privati era stata assegnata da un lato la remunerazione certa per il finanziamento dell’investimento senza alcun rischio di impresa, e dall’altro lato la gestione monopolistica di un servizio certamente redditizio, ,ma almeno con il rischio di domanda in capo ai privati.
Questa manovra fu sventata, perché furono dimostrati i costi ed i rischi per lo Stato, sostanzialmente senza alcuna contropartita, visto che i prestiti onerosi dalle banche sarebbero stati più costosi rispetto all’indebitamento dello Stato direttamente sul mercato.
GLI ESEMPI PERICOLOSI DI PRIVATIZZAZIONE DELLE FERROVIE
Ma non è finita qui con gli esempi pericolosi di privatizzazione della rete ferroviaria.
Nel 1994, sotto la spinta terminale della ideologica conservatrice di Margareth Thatcher, con il primo ministro John Major, la rete ferroviaria inglese fu collocata sul mercato azionario nell’ambito di un complesso piano di frazionamento e privatizzazione di British Rail.
L’entità pubblica fu suddivisa in più di 100 società e collocata integralmente presso investitori privati, istituzionali o individuali. Venne creata la società della rete ferroviaria, Railtrack. Alla quale era garantito un rendimento fisso per gli azionisti pari all’8% del capitale investito, definito come il montante dei pedaggi che le imprese ferroviarie avrebbero dovuto pagare per il canone di accesso alla infrastruttura.
La collocazione in borsa fu un successo clamoroso. Passata la festa, gabbato lo santo, si dice nella cultura popolare. Poi, per assicurare un miglior rendimento alla società e garantire un valore maggiore al titolo, la gestione fu piegata alla redditività di breve periodo, con il taglio ai costi per la manutenzione, con conseguenze tragiche sulla sicurezza.
FERROVIE, L’INCIDENTE DI HATFIELD
L’incidente ferroviario di Hatfield del 17 ottobre 2000 fu il colpo di grazia per Railtrack. Furono successivamente svolti lavori di manutenzione straordinaria su tutta la rete ferroviaria costati circa 580 milioni di sterline. A questo valore era arrivato il debito manutentivo che era stato accumulato negli anni per aver privilegiato la logica di redditività di breve periodo.
Railtrack temeva che si potessero ripetere altri disastri perché non aveva più conoscenze ingegneristiche in-house dato che tutti i lavori di ingegneria e manutenzione erano stati affidati a ditte esterne. Né aveva idea a cosa stessero portando le limitazioni di velocità imposte su tutta la rete, che di fatto causarono l’immobilizzazione progressiva del sistema ferroviario britannico, fatto che echeggia fenomeni che stanno accadendo in questo periodo anche in Italia per i molti cantieri di lavori.
Anche i costi per riammodernare la West Coast Main Line stavano aumentando a dismisura. Nel 2001, Railtrack annunciò che i conti dell’azienda registravano una grave perdita di 534 milioni di sterline. Lo Stato comprò Railtrack e fondò Network Rail che, dal 2 ottobre 2002, prese in mano la disastrata rete ferroviaria.
Network Rail, grazie a corposi finanziamenti statali, è riuscita a risanare la situazione ed a diminuire i ritardi dei treni. Nel White Paper del 2004 il governo ha delegato a Network Rail la responsabilità di monitorare la situazione della rete, redigere gli orari e definire nuove strategie per lo sviluppo e il potenziamento della rete ferroviaria.
I GUASTI DELL’ERRATA PRIVATIZZAZIONE DELLE FERROVIE INGLESI
Ma i guasti determinati dalla errata privatizzazione della infrastruttura inglese sono proseguiti. Il governo laburista, che ha vinto le ultime e recenti elezioni, ha varato un piano di completa nazionalizzazione del servizio ferroviario britannico. Il nuovo sistema ha il suo cardine in Great British Railways (GBR), una compagnia ferroviaria statale di pianificazione che supervisionerà il trasporto ferroviario passeggeri in Gran Bretagna, ad eccezione di Transport for London e Merseytravel, metropolitana leggera e servizi tramviari.
GBR assumerà le attuali responsabilità di Network Rail e diventerà proprietaria e gestore della maggior parte delle infrastrutture ferroviarie della Gran Bretagna. L’ente pubblico sostituirà a lungo termine il precedente sistema di franchising ferroviario privatizzato, per i servizi passeggeri. È durato dal 1996 fino alla sua effettiva abolizione nel 2021.
Tutte le società di gestione ferroviaria saranno acquisite dalla proprietà pubblica alla scadenza dei loro contratti e poi integrate in GBR, riunendo i servizi passeggeri sotto un’unica entità pubblica per la prima volta dalla privatizzazione della British Rail.
Questo modello organizzativo non includerà gli operatori ad accesso libero. Potranno continuare a gestire i servizi su tratte selezionate. La lunga parabola di una privatizzazione azzardata della rete ferroviaria inglese, che ha coinvolto i privati senza chiedere loro capitale di rischio, sta per riportare tutte le caselle al punto di partenza. Con elevati costi in termini di minore sicurezza nel corso di questi decenni e di maggiore onerosità per rimettere i tasselli al loro posto di partenza.
Con la eventuale privatizzazione in Italia della rete ad sita velocità si determinerà la nascita di una infrastruttura a due velocità. Non solo per le caratteristiche tecnologiche, ma anche per la suddivisione territoriale del Paese, tra Nord e Sud.
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