L’impianto di Tempa Rossa
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Petrolio no perché inquina, gas sì perché serve. Dagli attuali 3 miliardi di metri cubi di gas all’anno a 6 miliardi: raddoppiare la produzione di gas metano, ecco il piano del governo per far fronte alla crisi energetica che il nostro paese sta affrontando.
Il ministero per la Transizione energetica il 13 dicembre ha finalmente pubblicato il Pitesai (Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee). Dopo tre anni di moratoria si ridà il via libera alle trivellazioni, ma questa volta per cercare solo il gas e non il petrolio (condizione posta come veto dalle Regioni). Più che di “transizione’’ molti ritengono che questo piano sia una “finzione’’.
LE CRITICITÀ
Sicuramente una riduzione importante delle aree definite “idonee’’ alla ricerca di idrocarburi c’è stata, ma ha riguardato principalmente quelle zone dove il gas non c’è. Stop alle trivelle in Trentino, in Alto Adige, Liguria, Umbria e alcune zone della Toscana, ma il Piano comunque continua a interessare il 42% del territorio italiano.
In mare effettivamente le cose vanno un po’ meglio perché c’è stata una diminuzione dell’89%, ma le aree che restano oggetto del programma sono quelle dove si è sempre concentrata la produzione, soprattutto nel mar Adriatico (dove non si esclude la possibilità di nuove attività estrattive).
Pare proprio che ci sia stato un mutamento di marcia: il Pitesai nasce come idea durante il governo Conte 1 con l’obiettivo di vincolare la ricerca di idrocarburi e, sostanzialmente, di diminuire le emissioni tenendo a mente l’obiettivo della decarbonizzazione entro il 2050.
Invece, il Piano appena pubblicato sembra un insieme di regole volte a trovare e a estrarre il “tesoro’’ degli idrocarburi. Alessandro Giannì, direttore scientifico delle Campagne di Greenpeace Italia è molto duro su questo punto, e dichiara al Manifesto: «Se l’obiettivo è davvero decarbonizzare l’economia entro il 2050, per farlo devi partire da un punto A e muoverti verso un punto B, che non prevede l’estrazione e il consumo di gas metano. Oggi l’Italia parte dal punto A per tornare al punto A».
Dello stesso parere è Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente: «Il Piano è poco ambizioso, rappresenta un insieme di linee guida. Noi però ci aspettavamo una road map di uscita dal gas metano, con una deadline progressiva e definitiva alle estrazioni».
Se a tutto ciò si aggiunge la totale mancanza di riferimenti al clima, alla tutela dell’acqua come bene comune, alla terra dei fuochi e al perseguimento degli ecoreati (temi molto cari al precedente ministro per la Transizione Sergio Costa) si capisce benissimo che una transizione è avvenuta, ma forse solo all’interno del Ministero. Effettivamente l’attuale ministro Cingolani insiste, anche nel Pitesai, sull’efficienza, sulla performance, sul potenziamento e la profittabilità, un linguaggio che sembra più da imprenditore che da ambientalista.
IL FABBISOGNO
Ora, di questi tempi si è parlato abbondantemente della nostra dipendenza dal gas straniero (per il 40% dalla Russia) e quindi ai più sembrerà un ottimo piano strategico quello di raddoppiare la produzione di gas italiano, ma la verità è forse meno convincente.
L’Italia ha un fabbisogno annuo di 72 miliardi di metri cubi di gas; quindi, se mai riuscissimo ad estrarne 7 miliardi potremmo ricoprire soltanto il 10% della nostra bolletta energetica: sicuramente non è poco, ma di certo non può renderci autonomi e meno che mai potrà portare a sgravi sostanziali sulle bollette degli italiani. Dunque «l’Italia si vincolerà a una Finzione ecologica senza Transizione reale» sottolinea ancora Giannì.
E in questo contesto torna attuale la condizione della Basilicata. Questo perché la “provincia petrolifera d’Europa” (così definita da Total) è ricca di petrolio e automaticamente anche di gas (il greggio estratto contiene acqua petrolio e gas). I dati dicono che dalla piccola regione del Sud si estraggono attualmente circa 1 miliardo e mezzo di metri cubi di gas metano (1,2 miliardi dall’Eni in Val D’Agri e 300 milioni da Total sulla collina di Tempa Rossa): cifre che corrispondono al 70% della produzione a terra e al 30% se consideriamo anche quella a mare.
E proprio in Basilicata si nutre qualche dubbio sul Pitesai, perché qui l’area del petrolio occupa già il 20% del territorio regionale. È vero che non è possibile procedere con nuove perforazioni alla ricerca di greggio, ma è anche vero che potrebbero sbloccarsi una cinquantina di permessi di ricerca per quasi 12mila chilometri quadrati di territorio in Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Lombardia, Molise, Puglia e Basilicata. Dunque, è comprensibile la preoccupazione dei lucani per la sostenibilità ambientale di tutto questo.
L’ACCORDO IN BASILICATA
Una notizia positiva però c’è: si stima che il giacimento del Sauro coltivato dalla Total disponga di almeno un miliardo di metri cubi di gas che sarà estratto per tutto il tempo in cui saranno attivi i pozzi di petrolio. L’accordo con la Regione firmato pochi mesi fa ne prevede l’acquisizione gratuita da parte della Basilicata, che così potrebbe diventare di fatto un soggetto economico di notevole interesse.
Se la Regione iniziasse effettivamente ad agire come la Norvegia (che si fa pagare la costosa transizione ecologica da chi continua a usare gas e petrolio, senza far ricadere i sovraccosti sui suoi cittadini) allora potrebbe finalmente smentire il mito della regione tanto ricca nel sottosuolo quanto povera in superficie.
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