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La geopolitica del Vaticano secondo papa Bergoglio, un pontificato dirompente in un mondo in via di cambiamento, un Papa post-occidentale


Quando Papa Francesco si presentò di fronte al mondo vestito di bianco, il 13 marzo 2013, fu presto chiaro che il suo sarebbe stato un pontificato dirompente sotto molti punti di vista. Prima di impartire la tradizionale benedizione ai fedeli infatti, l’argentino Jorge Bergoglio espresse una richiesta: «prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo». Nel chiedere quasi un’investitura popolare il Papa iniziava così un papato destinato a essere tanto iconico quanto iconoclasta.

Le qualità del primo pontefice extra-occidentale avevano contribuito alla sua scelta, in un momento non semplice per la storia della Chiesa, scossa dalle improvvise dimissioni del suo predecessore, Papa Benedetto XVI, e da una serie di scandali che gettavano ombre sulla Curia romana. Ma soprattutto da una sfida geopolitica di carattere planetario: in Occidente l’avvento del consumismo secolarizzato scuoteva i valori del magistero cattolico, sospinto dalle degenerazioni di un capitalismo in crisi che mostrava tutti i suoi limiti in termini di disuguaglianze; nella vasta periferia globale invece, cresceva lo scollamento tra le società locali e il modello socio-economico occidentale.

La Chiesa percepiva con anni di anticipo la torsione che le promesse tradite della globalizzazione avrebbero imposto a un sistema in cui gli occidentali continuavano a cullarsi ma di cui la Chiesa cattolica percepiva le contraddizioni. Proprio la provenienza di Francesco da questa parte del mondo fu accolta freddamente in parte dell’Occidente: Bergoglio fu accostato al peronismo, di cui pure era stato un oppositore, e tacciato di un facile populismo terzomondista di matrice anti-occidentale. Ma Bergoglio è sempre stato un Papa post-occidentale più che anti-occidentale.

La rivoluzione geopolitica bergogliana partì proprio da un dato fattuale: che non era stata la Chiesa a voltare le spalle alla civiltà occidentale, verso cui anzi ai tempi del grande sostegno ai movimenti pro-democrazia est-europei il papato aveva mostrato vicinanza; ma lo stesso Occidente ad aver abbracciato una cultura individualista e relativista sempre meno compatibile coi valori del magistero della Chiesa. Guardare fuori da un perimetro occidentale così spiritualmente inaridito, era una presa d’atto obbligata e il presupposto necessario per il rilancio del cattolicesimo anche europeo. La società occidentale doveva essere dunque “riconquistata”, attraverso un percorso di ri-evangelizzazione che permettesse di riprendere il suo posto a fianco dei grandi polmoni cattolici come l’America Latina e l’Africa.

Su tale tema l’agenda di Francesco si è incrociata con un fenomeno epocale, l’inizio delle grandi migrazioni in Europa. Fin da subito, con una visita apostolica a Lampedusa pochi mesi dopo la sua elezione, Bergoglio volle sottolineare quanto la questione fosse focale per la sua visione. Laddove taluni vedevano un’opportunità economica sotto forma di manodopera a basso costo, il Papa la inquadrò come una sfida culturale più ampia: le popolazioni sud-globali, spesso più religiose degli occidentali, avrebbero potuto favorire una ri-evangelizzazione cristiana in Occidente facendo riscoprire l’importanza dei valori cattolici in Europa. Il grande nemico dei migranti non era dunque l’Occidente in sé ma bensì la «globalizzazione dell’indifferenza», un modello sociale che stava sacrificando l’uomo in nome del profitto e della tecnologia.

Il primo Papa post-occidentale della Storia, oltre a incarnare profeticamente la crisi dell’economia globalizzata, non poteva poi ignorare un’altra grande rivoluzione, quella delle relazioni internazionali. Già nei primi mesi di pontificato, Francesco dimostrò che il suo orizzonte fosse globale, scorgendo forse un’assonanza tra la missione universalista della Chiesa e un trend che vedeva emergere nuove realtà a fianco della grande potenza americana. Un multilateralismo evangelico contraddistinto da un focus per le organizzazioni internazionali – in special modo le Nazioni Unite – e un marcato accento di multipolarismo.

Anche in questo caso si è trattato di un papato avanti sui tempi: solo poche settimane fa, il Segretario di Stato americano Marco Rubio ha dovuto riconoscere – suo malgrado – la fine dell’unipolarismo statunitense e la nascita di un ordine internazionale multipolare. Ecco allora la scelta – strategica prima ancora che ecumenica – di cercare un rapporto diretto con la Russia: paese immenso con un ruolo da attore internazionale non evadibile, per esempio in Medio Oriente. Proprio sulla crisi mediorientale Bergoglio scrisse la sua prima lettera diretta al presidente russo Vladimir Putin, chiedendogli di favorire una soluzione diplomatica in Siria, dove Mosca combatteva a fianco del regime di Bashar el-Assad anche a difesa della comunità cristiana locale.

Era il 2014 e lo stesso anno Papa Francesco incontrò a sorpresa, in un appuntamento denso di significati geopolitici, il Patriarca ortodosso russo Kirill a L’Avana, a Cuba. Fu l’inizio di un rapporto che è continuato nel tempo e che nel 2016 sfociò in una storica dichiarazione in nome dell’ecumenismo ma anche della critica comune alla globalizzazione e alla persecuzione dei cristiani.

Pur criticandone l’appoggio all’invasione russa dell’Ucraina, Francesco ha conservato questa propensione durante il conflitto auspicando in più occasioni di potersi recare a Mosca a parlare con Putin per giungere a una soluzione negoziale che includesse gli interessi geopolitici russi nell’equazione. Analogo approccio Bergoglio ha tenuto nei confronti della Cina: con un’inaspettata politica di aperture diplomatiche, il Vaticano è giunto a un accordo con le autorità di Pechino che risolvesse l’annosa questione del riconoscimento della Chiesa cattolica in Cina, in precedenza repressa dal governo. Proprio in Asia, del resto, con le sue immensità demografiche, il papato scorge la prossima grande frontiera dell’evangelizzazione.

Pur criticandone l’appoggio all’invasione russa dell’Ucraina, Francesco ha conservato questa propensione durante il conflitto auspicando in più occasioni di potersi recare a Mosca a parlare con Putin per giungere a una soluzione negoziale che includesse gli interessi geopolitici russi nell’equazione. Analogo approccio Bergoglio ha tenuto nei confronti della Cina: con un’inaspettata politica di aperture diplomatiche, il Vaticano è giunto a un accordo con le autorità di Pechino che risolvesse l’annosa questione del riconoscimento della Chiesa cattolica in Cina, in precedenza repressa dal governo. Proprio in Asia, del resto, con le sue immensità demografiche, il papato scorge la prossima grande frontiera dell’evangelizzazione.

Né va dimenticata la grande intesa tra papato e mondo musulmano, in particolare quello sciita: la visita di Bergoglio in Iraq nel 2021 ha segnato un momento di grande vicinanza tra le due comunità, uscite molto provate dalle violenze dell’Isis. Sotto Francesco la Chiesa cattolica ha così cambiato direzione e – se non anima – pelle, con la nomina di numerosi Cardinali provenienti da paesi tradizionalmente poco considerati nelle gerarchie cattoliche. Proprio a loro spetterà, si spera più poi che prima, il compito di trarre le somme di un pontificato senza dubbio rivoluzionario.

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